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È la nostra casa

Maria Antonietta Nardone

(Foto della locandina presa dal web)


UTAMA – LE TERRE DIMENTICATE

di Alejandro Loayza Grisi

con José Calcina, Luisa Quispe, Santos Choque, Candelaria Quispe, Jorge Yucra Nogales


Che bell’esordio Utama - Le terre dimenticate di Alejandro Loayza Grisi! Che film asciutto e toccante allo stesso tempo ci ha regalato!

Nell’altipiano andino, sul versante boliviano, vivono nella loro casa solitaria una coppia di anziani quechua, Virginio e Sisa. Viginio attende ai suoi lama. Si alza alle cinque del mattino e li porta al pascolo. Sisa prepara la colazione, poi cura un campo davanti casa, secco che più secco non si può, arandolo e seminandolo. È suo compito, in quanto donna, procurare l’acqua. Non piove da un anno in queste lande ormai desertificate con la terra spaccata dalla prolungata siccità. Perfino il pozzo del villaggio è all’asciutto. Le toccherà arrivare fino al fiume per raccogliere l’acqua in due secchi di metallo e portarla a casa. È questa la scansione delle giornate di questa coppia affiatata e di poche parole perché a comunicare sono sufficienti gli sguardi e l’intesa di una vita intera passata insieme.

Dalla città arriva il nipote, Clever, che è molto affezionato ai nonni. Arriva accompagnato in motocicletta ed ha sempre in mano il suo cellulare (motocicletta e cellulare rappresentano la tecnologia e il “progresso” della città).

Virginio non sta bene. Ha lunghi accessi di tosse, che tiene orgogliosamente nascosti alla moglie. Clever se ne accorge e lo spinge a dirlo alla nonna. Cerca di convincerlo anche a trasferirsi in città per curarsi. Virginio è irremovibile. Non andrà mai via dalla sua casa. «È questa la nostra casa» (la nostra casa si dice utama in lingua quechua). Il vecchio conserva in sé la sapienza millenaria dei suoi avi, presente che la morte si sta avvicinando e racconta al nipote quello che fa il condor, il maestoso rapace di questi altipiani, quando sente che non è più in grado di volare:«Va sulla montagna più alta, chiude le ali a sé, e si lascia cadere nel vuoto». Il giovane risponde:«E non ha paura?». Il vecchio ribatte spazientito:«Certo che ha paura! L’importante è che tu capisca che da quel momento inizia un nuovo ciclo»

È preoccupato, Virginio, per la prolungata siccità, ma anche confidente che pioverà, pioverà presto, non può non piovere così come avviene da secoli. Tutta la comunità è preoccupata. Si decide di fare un sacrificio per propiziare l’arrivo della pioggia. Intanto continua l’opera di persuasione da parte del nipote che ha non pochi scontri con il brusco e testardo nonno il quale rifiuta categoricamente di andare in città a curarsi. A mediare tra i due c’è Sisa con la sua ferma e scarna saggezza; Sisa che riconosce le ragioni di entrambi, ma si pone dalla parte del marito. Non rivelo oltre della storia.

In una maniera secca ed asciutta, come la terra ripresa nel film, il regista racconta l’asprezza della vita a queste altitudini. Racconta i gesti lenti e pacati, il susseguirsi dei giorni e delle stagioni, la pioggia che manca da un anno, la semina, l’allevamento dei lama, l’approvigionamento dell’acqua, i pezzi di pane portati alla bocca e mangiati con lentezza antica e sapiente. Racconta il sole dell’altipiano che brucia la carnagione e scava rughe che sembrano crepacci, eppure le facce che vediamo sono bellissime perché sono autentiche e vere. Racconta e mostra le pietre regalate da Virginio alla moglie fin da quando erano fidanzati; racconta i vestiti dei quechua: cappellone da cow boy, il nonno, gonnellona, bombetta e lunghe trecce nere, la nonna. Racconta l’affetto brusco, ma profondo e genuino, che scorre tra marito e moglie, ma anche tra nonni e nipote. Racconta i ghiacci delle montagne che non ci sono più perché si sono sciolti. Racconta il sacro, il senso del sacro che abita le anime di questa popolazione. Racconta il presentimento della morte e la consapevolezza che bisogna attraversare il lago ossia il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Racconta l’accettazione della morte, e non, come nel mondo occidentale, il terrore e il nascondimento della morte. Racconta la dignità altissima di questa coppia di anziani che ha passato insieme l’intera esistenza e come dice Sisa al marito:«Siamo una cosa sola!».

Il tutto cadenzato dal respiro ora pesante ora affannoso del vecchio Virginio; un respiro udibile per l’intera pellicola.

La tensione qui non è tra l’uomo e l’ambiente arduo in cui vive (nella coppia quechua non c’è questa tensione, è una vita che vivono in un ambiente difficile che è la loro normalità), bensì una tensione che nasce tra l’uomo e un ambiente già duro, durissimo che il cambiamento climatico, però, rende ormai impossibile da abitare.

Guardando questo film vengo portata a chiedermi che fine faranno le popolazioni che vivono in queste zone ardue e sperdute, sparse appunto in America latina, così come quelle che vivono in Africa e in Asia. Che fine faranno le popolazioni tribali dell’intero pianeta Sapiens? Il cambiamento climatico che desertifica enormi porzioni di terra oppure, in altre zone, che innalza il livello dell’acqua dei fiumi e dei mari (e penso al Bangladesh, solo per fare un esempio) spingendo milioni di persone a lasciare la propria casa per stabilirsi altrove è un’ulteriore violenza che colpisce queste popolazioni già, di solito, poco tutelate dalle amministrazioni dei paesi in cui vivono. Come non comprendere che senza la lingua, le tradizioni e le religioni di queste popolazioni tutti noi perdiamo interi orizzonti di senso e di significato? Come non comprendere che tutti noi ne usciremmo deprivati?

Sono stata in Bolivia due volte (nel 2007 e nel 2015) ed ho visto le montagne dai sette colori, le quebradas, i salares, le lagune colorate, gli altipiani abitati dai quechua e battuti da un vento implacabile. Sono stata anche a Potosi, dove è stato girato il film. L’ariosità di questi spazi immensi e in quota, di cui spesso non si vede la fine, la luce a queste altezze, il vento incessante e prepotente, il silenzio della parola – perché qui la Natura, che è come dire Dio, si esprime continuamente – il freddo notturno anche d’estate (si è su un altipiano), il volo dei condor con le loro grandi ali distese, la terra terrosa e spaccata come un vaso di coccio o che si innalza in pulviscoli accecanti, ebbene tutto questo che ad altri può provocare paura, vertigine od angoscia, a me fa stare bene. Quando constato che ci sono ancora tante modalità di vita diverse dalla mia, io sto bene; questa sola constatazione mi fa stare bene.

Mi ha sempre colpito il volto dell’Altro. Perché questo è anche un film di facce, delle facce indimenticabili di Virginio (Josè Calcina), di Sisa (Luisa Quispe) e di Clever (Santos Choque). È un film di volti che parlano, si interrogano e ci interrogano. E, come ci ha mostrato Emmanuel Lèvinas, l’epifania del volto dell’Altro è visitazione e vita. L’epifania del volto è difatti «un coinvolgimento immediato nell’etico». L’incontro con il volto degli Altri è quell’evento che permette l’approccio all’idea stessa di Dio. L’espressione del volto dell’Altro «impegna a far società con lui» è «appello dell’uno all’altro» proprio perché il «volto parla», quindi, il volto è condizione di ogni discorso, e si può dire che la relazione esiste quando il dialogo, che è sempre un rispondere, è soprattutto un essere e sentirsi responsabili di e per qualcuno.

Mi pare che Alejandro Loayza Grisi sia riuscito ad esprimere benissimo tutto questo (e altro) con il suo film che ha l’asciuttezza dei documentari, senza esserlo, un documentario – il regista è stato documentarista e direttore della fotografia. Bella la fotografia di Barbara Alvarez. Efficace il montaggio di Fernando Epstein. Indimenticabile, soprattutto, l’interpretazione della coppia di quechua, due veri quechua, José Calcina e Luisa Rispe.

Utama – Le terre dimenticate è stato subissato di premi internazionali ed è stato scelto dalla Bolivia per concorrere alla prossima edizione degli Oscar.






Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati


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