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Maria Antonietta Nardone

Nelle tenebre più buie



IL FIGLIO DI SAUL -

di Lázló Nemes

con Gèza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn, Sandor Zsoter, Todd Charmont



È davvero un viaggio nel cuore di tenebra del Novecento, la visione di questo film! Una visione talmente dura da farmi in un primo momento sospendere ogni giudizio, ogni volontà di redigere una critica cinematografica. Che pure, poi, ho redatto per un senso di responsabilità morale ed intellettuale, oltrepassando però i confini di una pura recensione – non ho proprio potuto fare altrimenti.

Fin dal primo fotogramma, difatti, si è gettati nell’universo concentrazionario di Auschwtiz-Birkenau a seguire il volto e le spalle di Saul Ausländer, ebreo ungherese che lavora nel Sonderkommando, le squadre speciali che si occupavano di accompagnare i nuovi arrivati negli spogliatoi, dirigerli negli stanzoni delle finte docce, chiuderne le pesanti porte di ferro. A gassificazione avvenuta, queste unità speciali erano le prime ad entrare nello stanzone ed a svolgere alcuni compiti ben precisi: estrarre dai cadaveri i denti d’oro e tagliare i capelli alle donne (questa macabra mansione, per pudore, il film ce la risparmia), pulire velocemente pavimenti e pareti del camerone a gas, caricare i cadaveri sul montacarichi che portava ai forni crematori, trasportare le tonnellate di cenere umana presso il fiume dove poi veniva gettata a palate. Questi “portatori di segreti” erano separati dagli altri prigionieri e venivano eliminati e sostituiti con nuovi membri ogni tre o quattro mesi.

Si è scaraventati, come il protagonista, in un mondo dove vige l’arbitrio assoluto, con ordini urlati in tedesco, grida lanciate in altre lingue europee, sferraglia di treni in arrivo, cancelli che si aprono e si chiudono; ci si muove in una scia senza coscienza dove si può essere sempre afferrati all’improvviso per il collo della giacchetta ed essere trascinati, spinti, strattonati, malmenati o picchiati, così all’improvviso, da una guardia tedesca o da un capo-squadra, anch’egli prigioniero. Il non-senso di quel mondo capovolto arriva così fortissimo.

Si vede e si sente tutto attraverso il volto di Saul, attraverso il suo punto di vista e la sua anima (di quel che ne resta). Grazie a questa soggettiva il regista ungherese racconta l’orrore e il terrore senza alcun compiacimento nel mostrare l’indicibile e l’irrapresentabile, che si intravedono sempre sfocati, mossi, miopi. E, nonostante il fuori-fuoco, anzi, forse proprio grazie a questo fuori-fuoco, è trasmessa tutta la durezza e l’insopportabilità di quell’estrema modalità di vita sopravvivente a se stessa. Si partecipa all’adunata o all’appello, ai turni di giorno e di notte di queste squadre speciali in una cacofonia di suoni e di babele di lingue, di lamenti, di affanni, di spari o di mitragliate, oppressi da un senso continuo di minaccia e di morte. Si intravede il fuoco dei forni crematori, si sbirciano di sguincio le fiamme delle fosse comuni in cui venivano gettati i deportati in eccesso ossia quelli che i forni non riuscivano a smaltire.

Perché ad Auschwtiz-Birkenau, il centro dell’annientamento di massa degli ebrei europei, non c’era pensiero, non c’era sentimento, non c’era quasi respiro, ma solo la morte; anzi, una morte prima della morte. È questo quello che si vede sul volto di Saul, all’inizio: l’assenza di vita consapevole, la morte dell’anima.

Gli internati erano completamente privati della loro coscienza. I nazisti uccidevano loro l’anima prima ancora della deportazione. Non era solo una perseguita depersonalizzazione, essi andarono ancora più a fondo: gli ebrei non erano più uomini, ma sub-umani, sotto-uomini. O stüken (pezzi), come li chiamavano. Pezzi! Vuoi mettere eliminare un “pezzo” piuttosto che uccidere un uomo? Uccidere un uomo non è così semplice o automatico neppure per degli assassini incalliti come le SS. Può sempre insorgere un qualche rigurgito morale che li può fare esitare o desistere. Ma se elimino dei “pezzi”, non c’è nemmeno il più lontano senso di colpa.

Nella ripulitura dello stanzone a gas, dove giacciono accartocciati i cadaveri di quelle che fino a pochi minuti prima erano persone vive e senzienti, Saul avverte, all’improvviso, una specie di rantolo, un respiro appena percettibile; sì, è il respiro di un ragazzo, scampato alla morte. Viene estratto dagli altri corpi, mezzo moribondo, ed adagiato su una barella. Il medico nazista, invece di rianimarlo, lo finisce con le sue stesse mani. A questa visione, scatta qualcosa nell’animo di Saul che, da quel momento, decide di andare alla ricerca di un rabbino che reciti il Kaddish (la preghiera per i defunti) dopo aver degnamente seppellito il corpo nella terra (invece di bruciarlo) secondo le tradizioni religiose ebraiche. Preso da questa ricerca ostinata di trovare un rabbino tra gli altri internati, da questa volontà di dare un’umana sepoltura ad un ragazzo che diventa così, nella sua mente, suo figlio, mette a repentaglio il piano di fuga dei suoi compagni.

Qui assistiamo all’inaudito. Vediamo con i nostri occhi il sentimento di dignità e di pietas che rinasce nel luogo dell’assenza di ogni dignità e di ogni pietà. Vediamo questo cammino spirituale di riscatto (che dura solo poche, concitate ore), questo cammino elementare ed ossessivo di vera liberazione dall’indifferenza d’automa a cui era stato ridotto. Di una liberazione interiore più pressante della stessa liberazione concreta (la rivolta e la fuga “impossibile” dal campo). E su quel volto sfinito, infine, riappare perfino la luce di un sorriso.

Questo non mostrare frontalmente l’orrore, ma farlo sentire dall’interno, con percezioni sensoriali (soprattutto attraverso l’udito ed una vista indistinta), è un modo di raccontare le scene più atroci senza fare una pornografia dell’orrore, ossia una cinematografia oscenamente spettacolarizzata e compiaciuta dell’orrore e soprattutto dell’uccisione industriale di esseri a cui fu tolta ogni dignità. Questo vedere-non vedere, queste allusioni, queste visioni fuori-fuoco, che a me sembra rispettino la morte delle vittime, non solo lascia loro tutta la pesantezza e la cruda realtà di quella sorte, ma dona loro quel pudore che gli ideatori, i carnefici, gli esecutori e i gli stessi negazionisti della Shoah hanno razionalmente voluto loro negare. Trovo in questa precisa volontà e resa artistica, in questo pudore nel non mostrare sfacciatamente l’orrore e quindi nella forza di dare – di ridare – dignità a quelle morti, uno dei punti più alti della regia di Nemes.

Qui non ci sono favole astoriche ed inesatte con relativo ed incongruo lieto fine, come ne La vita è bella di Benigni. Qui si resta attaccati alla realtà cruda ed insopportabile dei campi; non la si addolcisce né la si falsifica. Dei tanti film visti sull’argomento, Il figlio di Saul lo accosto al fondamentale documentario Shoah di Claude Lanzmann del 1985. Perché entrambi mi hanno fatto sentire, in tanti tratti e in tanti momenti, l’orrore e il terrore puro che si deve essere provato in quei lager.

Mi ricordo di aver letto, molti anni addietro, una considerazione di Luciana Nissim Momigliano, che in quei campi era stata deportata (prima a Fossoli e poi ad Auschwitz). Disse che il film Schindler’s List di Spielberg non le restituì neppure per pochi secondi l’orrore e soprattutto il terrore che si respirava lì. Ebbene, io credo che questo film sia stato capace di restituire quell’orrore e quel terrore – anche se questo può dirlo con un’autorevolezza assoluta solo un sopravvissuto o una sopravvissuta a quei campi.

Alcuni dei pensieri più illuminanti su questa esperienza-limite del cosiddetto “secolo breve”, io li ho trovati in Jean Améry, nel suo Intellettuale ad Auschwitz, e in Primo Levi. Il suo I sommersi e i salvati, per molti aspetti ed analisi, supera il pur “bello” e tremendo Se questo è un uomo. È un libro questo che è stato per me folgorante ed estremamente formativo – lo lessi per la prima volta a ventitré anni, quando uscì; anzi, periodicamente formativo – ne rileggo spesso alcuni brani.

Non solo il senso di colpa dei sopravvissuti, mi ha colpito, ma soprattutto l’affondo coraggioso, lucido su quella che Levi chiama “la zona grigia”. Nessuno, che io conosca, ha descritto “la zona grigia” con la trasparenza e la pacatezza d’animo che ha avuto lui. La “zona grigia” della collaborazione, ossia di quei prigionieri all’interno dei campi di sterminio, come i Kapos e i Sonderkommandos, che sono stati costretti a “collaborare” con le guardie naziste nell’eliminazione sistematica dei loro stessi compagni di prigionia. Con le sue parole:«Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. […] Attraverso questa istituzione si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti». E più oltre, su quest’infamia di voler “sporcare” anche le vittime con le nefandezze dei carnefici, Levi cita Manzoni, che con lingua e pensiero limpidi, così scrive:«I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’anima degli offesi» – l’uso del grassetto è mio.

Sul volto smunto e dallo sguardo vitreo di Gèza Röhrig, lo scrittore ungherese che vive a New York e che incarna Saul (con la camera stretta che mostra solo quanto il protagonista può vedere e sentire e nulla di più), si configura tutto un mutamento interiore che ha del prodigioso. L’abilità tecnica di girare dell’esordiente Lázló Nemes porta ad un’immersione totale e senza distanze dello spettatore in questo universo concentrazionario.

Questa immersione senza distanza nel lager, che emotivamente scuote nel profondo e fa letteralmente sentire qualcosa di sostanziale di quell’orrore e di quel terrore, sarà benemerita se, dopo la visione del film, lo spettatore sarà spinto a conoscere di più e meglio non solo la vita in quei campi bensì l’humus culturale in cui è nata l’ideazione, la pianificazione, l’attualizzazione industrializzata dello sterminio. Se si soffermerà a leggere ed ad approfondire i documenti della conferenza di Wansee, dove nel gennaio del 1942 si stilarono le indicazioni amministrative ed operative della soluzione finale (endlösung) della questione ebraica; praticamente, messo nero su bianco, dello sterminio pianificato degli ebrei d’Europa.

Se sarà spinto a porsi le interrogazioni e le riflessioni di Hannah Arendt (sul nesso tra totalitarismo e genocidio oppure sulla pensabilità di un Male impensabile secondo le categorie kantiane), di Gunther Anders (sull’uomo, nell’età della tecnica, che è talmente antiquato da non poter condurre una vita morale), di Hans Jonas (il quale scrive:«l’attributo divino che deve venire abbandonato è il concetto di onnipotenza di Dio»), di Theodor Adorno (sull’indicibilità e sull’irrapresentabilità artistica di Auschwitz). Se sarà capace di interrogarsi e di riflettere e di ricollocare la Shoah in un punto dove non sia possibile la banalizzazione, la strumentalizzazione o la commercializzazione, ricercando piuttosto le implicazioni etiche, politiche, filosofiche, artistiche, psicologiche, teologiche, antropologiche ecc. portando infine la memoria a divenire storia; perché è di storia che c’è bisogno, dopo la testimonianza, di storia e di storia della cultura.

Ebbene se sarà capace di ciò, se sarà capace di avviare nuove o rinnovate riflessioni, allora questo film travalicherà il suo stesso esito artistico e le sue stesse scelte estetiche; diversamente rimarrebbe una pellicola di grandissimo impatto emotivo, certo, stilisticamente audace, ma un po’ troppo fine a se stessa e priva di approfondimento intellettuale.

Per quanto mi riguarda, invece, basterebbe solo tutto quello che ha suscitato in me – pensieri, percezioni e sentimenti – che è poi quanto ho cercato di riportare in questo scritto, sia pure parzialmente, per fare de Il figlio di Saul un film sorprendente e necessario. E un film talmente perturbante da costringermi a pensare se e quanto sia possibile, per chi non è un sopravvissuto, raccontare la Shoah senza “usarla”.


Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

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