Amiche fragili
LA PAZZA GIOIA
di Paolo Virzì
con Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti, Valentina Carnelutti, Tommaso Ragno, Marco Messeri, Anna Galiena
«La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile ed antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi». Questo scrive Eugenio Borgna, il grande psichiatra che ama la grande letteratura, nel suo folgorante libro La fragilità che è in noi. E più oltre:«Certo, ci sono condizioni di malattia, di malattia somatica e di malattia psichica, che portano talora alla luce fragilità nascoste con le loro inquiete forme di espressione; ma, al di là di queste, le fragilità fanno parte della vita, ne sono una manifestazione normale» (il corsivo è mio).
E come non riconoscere nella fragilità gli elementi costitutivi della condizione umana? Di tutta la condizione umana?
Che gran coraggio ha avuto Paolo Virzì ad immettere lo spettatore, per due ore piene, nel mondo e nell’universo mentale di due pazienti psichiatriche (e che patiscano, soffrano, non c’è alcun dubbio)! Far stare due ore in quell’atmosfera di disagio e di sofferenza a cui, di solito, i più cercano di sfuggire è un’operazione di grande rilevanza etica ed artistica.
Beatrice Morandini Valdirana e Donatella Morelli, due donne che più agli antipodi non si può, sono rinchiuse nella comunità terapeutica di Villa Biondi per una sentenza restrittiva del tribunale. Ricca, colta (legge Baudelaire, riconosce la musica di Čiajkovskij suonata con dei calici in un lussuosissimo ristorante di Montecatini), Beatrice, con una capacità mimetica straordinaria (quando si spaccia per psicologa che perora la causa dell’amica con i genitori adottivi del figlio sottrattole è insuperabile); torva, chiusa in se stessa, di modesta estrazione sociale e con un corpo ricoperto di numerosi tatuaggi e segnato da numerose cicatrici, Donatella, che sembra proprio un uccellino caduto dal nido (l’immagine di lei rannicchiata in se stessa sul pavimento dell’ospedale psichiatrico è molto forte ed altamente simbolica) fino a quel sorriso solare che si apre e la riapre al mondo quando reincontra, finalmente, il figlio che le è stato tolto.
Un’incontenibile logorroica, sedotta e sfruttata da un triste e volgare figuro, e una borderline che ha compiuto un gesto pericoloso per sé e per il figlio, si incontrano e, complice un ritardo nell’oliata routine terapeutica, le due scappano, prendendo un normalissimo autobus.
«Ci diamo alla pazza gioia!» così dice Beatrice a Donatella subito dopo aver trafugato la macchina ad un tipo che le prende per prostitute. La gioia. Già, la gioia; mi sono chiesta: che cos’è la gioia? Un sentire luminoso, che nasce dalla propria interiorità, una richiesta di senso della vita, un anelito all’infinito, un’apertura grandiosa del cuore, che ispira slancio e solidarietà; e tutto questo, e altro, è provato anche in condizioni di estrema sofferenza, fisica e psichica, o di detenzione.
«E dove si trova la felicità?» è la disarmante domanda di Donatella. «Nei posti belli, nelle tovaglie di fiandra, nei vini buoni, nelle persone gentili» risponde sicura Beatrice, che mancherà anche di senso della realtà, ma quanto a sottigliezza ed intelligenza non è seconda a nessuno. E questa qui, verrebbe da dire, sarebbe una matta, anzi «una matta vera»?
Tra le due nasce un legame, un’amicizia, dove ci si ascolta, anche se non sempre, e si cerca di aiutarsi a vicenda con slancio sincero e purissimo; quando due individui, sì sofferenti, entrano in relazione, bè, è quello il vero atto terapeutico più potente e più profondo di qualsiasi farmaco, restrizione o contenzione!
Credibile tutto l’ambiente della comunità terapeutica – un luogo molto protetto, molto accogliente, molto materno – da chi cerca di aiutare sul serio, con caparbietà e competenza, stando dalla parte del fragile (Valentina Carnelutti, interprete sempre bravissima e finissima), a chi si nasconde dietro le maglie di un sistema istituzionale-sanitario che, come tutti i poteri, schiaccia anonimamente i singoli, soprattutto se deboli ed inermi.
In questa loro fuga, dove non mancano anche reciproche aggressività e sordità, emerge la grazia di queste due protagoniste; la delicatezza d’animo conservata nonostante la ferocia di un mondo che le maltratta o le respinge. Grazia e delicatezza, solidarietà e lealtà, che tante persone considerate “sane” non hanno. Quasi tutte le persone che incontrano nella loro “impossibile” eppur compiuta fuga sulle strade dai caldi colori della Toscana, difatti, si mostrano estranee, distanti, non entrando mai veramente in contatto con loro. Mi chiedo dove sia l’alienazione, l’egoismo, la totale mancanza di empatia e di comprensione.
Il regista mostra la sofferenza, la solitudine e l’incomunicabilità di questa sofferenza e di questa solitudine per una condizione da cui spesso non si esce. Se nella storia di Donatella c’è il danno, (tocchi proprio con mano il danno subito da due genitori inadeguati ed indifferenti alla sorte della figlia), e nel suo stesso racconto, nudo e toccante, è espresso il passaggio da un dolore costante ed eccessivo ad un gesto di follia, che è, comunque, un tentativo di arginare il proprio dolore impotente davanti al dolore espresso dal pianto inconsolabile del figlio che non vuole separarsi da lei, nella storia di Beatrice, invece, c’è tutta l’ipocrisia e il perbenismo borghese che non le perdonano la sua irregolarità e la sua schiettezza.
E se è vero che ci sono madri, come quella di Beatrice, che si augura che la figlia muoia «perché ne ha fatte troppe», e soprattutto, ha portato la famiglia alla rovina economica – davvero imperdonabile, contessa! – e questo augurio e questo desiderio le sembrano normalissimi, è anche vero che ci sono altre madri e altri famigliari che non si comportano come i famigliari di queste due amiche fragili: chi indifferente, chi gelido, chi irresponsabile, chi crudele. Anche perché è noto che tante patologie nascano e prosperino proprio in contesti famigliari anaffettivi, inadeguati, immaturi, egoisti.
Perciò sarebbe bello che sia raccontato con altrettanta sensibilità ed altrettanto rispetto anche la sofferenza, l’impotenza, il peso, l’incomunicabilità e talora la disperazione di quei famigliari e/o parenti che vogliono veramente il bene del proprio caro, a sua volta sofferente, ma sono abbandonati a loro stessi perché le strutture preposte sul territorio o non esistono o non operano in maniera adeguata.
Ma è il coraggio del regista a colpirmi quando ci fa vedere la bellezza e la sofferenza di queste due donne, l’aggressività o la mancanza di senso della realtà, che hanno tutte un’origine, un senso ed un significato. Quando sembra come suggerirci di non aver paura dei matti, e, soprattutto, di non considerarli degli scarti come perlopiù sono nella realtà quotidiana. Perché, e lo dico senza infingimenti, i malati mentali sono considerati da tanti come degli esseri inutili, soprattutto perché non produttivi, e trattati da esclusi se non da reietti. Esseri così “inutili” e “improduttivi” che la Germania nazista decise di eliminarli con un’iniezione letale, in quella che fu conosciuta come Aktion T4, ossia l’uccisione dei malati mentali, dei disabili fisici e psichici. Tanto per dire dove si può arrivare quando si imbocca il “ragionamento” sull’inutilità e sull’improduttività di alcuni individui.
Potenti le due protagoniste, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. Strepitosa, la prima, per la capacità ariosissima di coniugare un’intima e sottile sofferenza ad un aspetto comico irresistibile ed inedito. Un’elegantissima, raffinata mitomane così amabile nella sua generosità e nella sua sincerità alla quale l’attrice dona un’energia ed una capacità di inventiva altissime; incisiva ed intensissima, la seconda, capace di incarnare con tutto il corpo smagrito una sofferenza fonda e cupa. Capace di restituirci tutta la violenza e la pesantezza portate da un pervicace disamore; di chi, indifesa, è stata abbandonata e lasciata sola da chi più doveva proteggerla, ossia i suoi genitori. Un disamore che non le ha sradicato, a sua volta, la sua stessa capacità di amare. Quando raccomanda al padre – che non vede l’ora di scappare via da lei ancora una volta – di curarsi, ci si contorcono le budella dallo strazio e ci si irrorano gli occhi dalla commozione.
La fine rasserenata del film, forse un po’ forzata, rimanda alla speranza e alla fiducia. Alla speranza ed alla fiducia nella cura di anime vulnerate e vulnerabili; nella cura, quindi, dell’anima di tutti noi, matti e non.
Il film, girato con uno stile ed una struttura entrambi tradizionali, presenta qualche scena superflua o macchiettistica (la veggente, ad esempio), è però magistralmente dosato tra commedia e dramma, tra sorriso e dolore, e sforna una serie di battute memorabili – la sceneggiatura è firmata dallo stesso regista e da Francesca Archibugi.
Non posso che provare gratitudine per chi è stato capace di narrare la grazia della fragilità; sì, di narrare con un tocco umanissimo e rispettoso la grazia luminosissima di certa fragilità, regalandoci due ritratti femminili autentici e poderosi, così rari per non dire misconosciuti nella cinematografia italiana degli ultimi anni.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati