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  • Maria Antonietta Nardone

Il pensiero ritrovato


LUDUS MUNDI – Idea della filosofia

di Lucio Saviani

con un poemetto di Pasquale Panella

Post-fazione di Aldo Masullo

Moretti & Vitali Editori, 2017


Prendete questo libro di filosofia-filosofia, ossia di concentrato puro al 100% senza edulcoranti o ingredienti estranei, Ludus Mundi, scritto da Lucio Saviani per Moretti & Vitali Editori, e lasciatevi condurre fino alla fine di questa entusiasmante avventura del pensiero. Fatelo questo viaggio; percorrete questa via e ne uscirete trasformati. Non c’è solo meraviglia e sgomento, luce e tenebre, razionalità ed incanto. C’è proprio una riflessione – ed una critica – radicale e fascinosissima dell’uomo, dell’uomo nel mondo, della relazione tra uomo e mondo e del contatto con il mistero. Della realtà e del concetto stesso di realtà. Del gioco e del limite. Dell’originario rapporto che la filosofia ha intrattenuto con il mito, con la poesia, con la letteratura. Se vi sembra poco!

Un percorso catturante che pone (o ripone) la filosofia, questa irrinunciabile vita del pensiero, di nuovo in pista, non solo a giocare, ma ad osare, a spingersi oltre senza certezze, più o meno metafisiche, a tracciare nuovi sentieri, nuove vie dove poter riagganciarsi all’origine perduta, dimenticata, offuscata.

Non più una filosofia stanca, pavida, senza nerbo e senza slancio. O che si piega solo su infinite interpretazioni di interpretazioni o su esangui esercizi di stile e/o d’accademia. Ma una filosofia che, pur consapevole della propria finitezza, abbia il coraggio di indagare l’inindagabile, di pensare l’impensabile, di spostare sempre oltre i propri limiti – confini, margini, frontiere. Limite che può leggersi anche come marginalità, ma non nella sua accezione negativa di esclusione o autoesclusione bensì in quella positiva di muoversi radendo i confini, costeggiando frontiere da valicare e sospingerle più oltre. E di fare tutto ciò con coraggio, senza nascondere le proprie stesse ombre o far finta di non vederle. Con le parole dello stesso autore:«È un’idea della filosofia come pratica del limite ed esercizio di radicale finitezza, un pensiero la cui verità non è mai oggetto ma inesauribile origine».

Due i testi fondamentali che Saviani sceglie per farsi accompagnare in questa sua nuova avventura: I giochi e gli uomini di Callois e Homo ludens di Huizinga. Procedendo in un’analisi rigorosa e profondissima, alla ricerca di una origine perduta, che si rammemora di nuovo di se stessa, incontriamo il bambino di Eraclito, il divino fanciullo che gioca con i castelli di sabbia in riva al mare. Il bambino che crea e distrugge, distrugge e crea, spontaneamente, innocentemente, liberamente. È qui, in questa dimensione, e non in quella ordinaria del lavoro, dell’etica, della responsabilità, che l’uomo può accogliere l’Attimo (e la sua incommensurabile e fulminea pienezza) e tutti gli Attimi nel loro continuo riproporsi. Come in un gioco. Non come spettatore, bensì come attore e fautore del gioco allo stesso tempo. Spinto da una «forza plasmatrice» che incontra una «gioia primordiale». Che cos’è l’attimo? Come si presenta? Esso è l’improvvisa apertura; è il bagliore che attraversa l’oscurità; è l’intuizione istantanea di un altro ordine – o di tutt’altro ordine per dirla con Jankélévitch. O in qualsiasi altro modo si voglia chiamare questo ordine: mistero, infinito, divino, Dio, Uno, Brahaman ecc. Come l’epifania joyciana in Dedalus - Ritratto dell’artista da giovane, dove, ad essere percepita è una visione estetica e divina contemporaneamente. Dove non c’è separatezza tra le due. Del resto, sono il bambino e l’artista, per Nietzsche come per altri pensatori e poeti, a praticare il gioco libero e disinteressato; ossia il gioco distaccato da qualsiasi pensiero calcolante e finalistico che ha attraversato tanta parte della filosofia occidentale.

Da Heidegger e Fink – in una magistrale e serrata analisi parallela dove per l’uno il gioco è il gioco di specchi dei Quattro (terra e cielo, divini e mortali) mentre per l’altro è simbolo e riappropriazione del mito – passando da Gadamer («il gioco è il signore del giocatore» ed «ogni giocatore è essere-giocato»), Derrida (e la sua immagine di scacchiera infinita, dove in uno spazio chiuso sono altresì possibili inquantificabili mosse e combinazioni) fino a Jankélévitch (il mutamento continuo, l’inafferrabilità, il rifiuto di ridurre il tempo, l’amore, la morte a qualsiasi sistema concettualistico e l’istantanea intuizione come occasione di conoscenza) il gioco è indagato, svelato, denudato, interrogato con instancabile tenacia. Si incontra così il gioco giocato, il gioco giocante, il gioco finito, che ha bisogno di regole, e il gioco infinito che invece come una grammatica viva ha bisogno che le regole cambino perché ha bisogno soprattutto che il gioco continui e null’altro. Si incontra il bambino di Baudelaire. Il bambino che non solo gioca con «l’abile mano infantile che trionfa su ogni oggetto trasformandolo in giocattolo», ma ignora l’adulto, la violenza dell’adulto che vorrebbe insegnargli il gioco, la funzione di quel gioco, e continua imperterrito con i suoi monologhi e con il suo modo di giocare, creativo, senza scopo, senza morale.

E dove la verità non è un oggetto e tantomeno un oggetto da raggiungere e/o possedere. Semmai si scorge o si profila come rimembranza o nostalgia dell’origine. E, soprattutto, non è attraverso la virtù che si conosce, ma attraverso il furore, la pazzia, l’ebbrezza. E questo lo scrive perfino Platone in Fedro:«I maggiori beni ci sono elargiti per mezzo d’una follia che è un dono divino».

Se l’esistenza è sperimentata come gioco anche la filosofia può essere praticata come gioco, con le stesse accezioni che Saviani dà all’esistenza. Si configura così una filosofia irregolare, asistematica, allergica alle gabbie della definizione data una volta per tutte; una filosofia che quasi sfida l’enigma; una filosofia, soprattutto, che rischia. Una filosofia che come un intrepido navigante non ha paura di solcare l’oceano aperto e di inoltrarsi in mari sconosciuti. Può esserne travolto, sì, certo – è la possibilità sempre presente in ogni autentico rischio. Ma può anche scoprire nuovi mondi, una pluralità di nuovi mondi e con essi un «nuovo sguardo» e un «nuovo essere» per dirla con le parole di Simone Weil.

Così, se certa metafisica della filosofia occidentale ha oscurato e “dimenticato” l’origine (e l’originarietà), tuttavia essa, l’origine, sostanzia e straborda da tutti i grandi mistici, occidentali ed orientali. Mistica e pensiero, mistica e filosofia non sono in contrapposizione come certe idee superficiali e banalizzanti vorrebbero portare a credere. Al contrario, sono profondamente legate ed unite. Potrei perfino dire che la filosofia stessa è mistica. In specie quella filosofia che è rimasta legata al mistero. Mistico, difatti, significa essere legati ed in stretto contatto con il mistero.

I mistici a cui mi riferisco, e a cui Saviani mi sembra possa agganciarsi ed agganciare il suo pensiero, vanno da Hildegard von Bingen (che inventa una “lingua ignota”, un linguaggio segreto per le sue esperienze visionarie) a Meister Eckhart (che rintraccia nel distacco da ogni individualità, da ogni desiderio personale, l’unione con l’Uno dell’uomo nobile), da Giovanni della Croce (il dottore della Chiesa che ha però misticamente attraversato “la notte oscura dell’anima”) ad Angelus Silesius (il suo Pellegrino cherubico è unanimemente considerato una raccolta ed una summa della mistica occidentale), da Simone Weil (vertiginoso viaggio spirituale e religioso, tra i più profondi del nostro tempo) ad Henri Le Saux (che rappresenta l’incontro tra la mistica d’Occidente e la mistica d’Oriente). E non mi sembra un caso poi che i grandi mistici siano e restino perlopiù sconosciuti ai più. Credo che filosofi e teologi dovrebbero interrogarsi su questa perdurante sconoscenza. Potrebbe essere prima ancora che “utile” incredibilmente rivelatorio.

Attraverso l’analisi del gioco, il concetto di limite, la concezione di un tempo circolare e la consapevolezza di quanta irrealtà abiti ed attraversi la realtà, Saviani ripercorre l’intera storia della filosofia d’Occidente, ma lo fa per scorci, lampi, frammenti, e con deviazioni improvvise in cui ci si perde per poi ritrovarsi come in un bosco o in un labirinto; e lo fa riandando con un gran salto al mondo greco, anzi ai presocratici, ad Eraclito di Efeso, soprattutto, per proseguire su quella cresta dove si incontrano Bruno, Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche; insomma, i grandi, folgoranti irregolari della filosofia europea. In atletica leggera ci sono le corse con la staffetta. Quattro corridori percorrono 100, 200 o 400 metri di pista e consegnano il testimone (il bastone) al compagno già lanciato in corsa. Sembra quasi che il testimone di questa staffetta filosofica, composta dai campioni del pensiero irregolare, sia passato proprio a lui, a Lucio Saviani.

Innumerevoli le riflessioni e gli stimoli suscitati dall’autore. Tra i tanti, quello che mi ha più afferrato è l’affondo sullo spettro di Amleto e le sue peculiarità. Lo spettro che non è realtà, tuttavia «quel che Amleto considera “mostruoso” è che in quel teatro in fondo nessuno stia mentendo; ci sono realtà, fantasia, immaginazione, finzione, ma nessuno sta mentendo. […] Lo spettro di Amleto non è catalogabile in nulla di tutto questo; non è uno spergiuro, non è una falsa testimonianza, non è un inganno, non è un errore, non è falso, non è verace, non è menzognero. L’unica cosa che fa è apparire, scomparire e raccontare». Proprio come avviene con i personaggi di un romanzo (intendo autentico romanzo, ossia quello che indaga il rapporto dell’uomo con la realtà, e non certo un’assemblata ed anemica narrativa d’evasione). E qui non posso non pensare al Don Chisciotte di Cervantes e a quanta irrealtà attraversi quella che noi chiamiamo realtà, così come questo romanzo sublime e pieno di grazia mostra con ineguagliata maestria. A don Chisciotte la realtà non piace, non lo soddisfa e perciò cerca rifugio, anzi, cerca la salvezza nell’irrealtà. Anche ad Amleto la realtà non piace, non lo soddisfa; di più, gli fa ribrezzo. Ma il triste principe di Danimarca non trova salvezza e, dopo aver giocato tutti i suoi giochi – forse non proprio benissimo – decide di non far più parte della realtà: decide di non essere tout court.

Mi ha colpito e profondamente coinvolto anche tutto il capitolo dedicato a Jankélévitch di cui cito una parte dell’epigrafe:«Ma, d’altra parte, perché si dovrebbero seguire gli insipidi itinerari del turismo filosofico? Perché privarci delle scoperte che ci riservano i cammini nascosti e abbandonati, deviati dei vagabondi? Le scoperte che si possono fare non sono giudicate degne di figurare sulle guide blu della cultura. […] E tuttavia la necessità di rompere con le idee date e acquisire nuove abitudini è proprio ciò che permette alla filosofia di nutrirsi di domande sempre nuove».

E come una tale filosofia possa darsi nell’epoca dell’età della tecnica (dove è la tecnica o la tecnocrazia a dirigere l’uomo e non viceversa come molte menti ingenue continuano ancora a credere) e nell’epoca dove le continue ed incalzanti scoperte scientifiche hanno mutato e tuttora stiano mutando tutte le antropologie fin qui costituitesi, ebbene, questa sfida e questa scommessa mi paiono oltre che di enorme rilevanza umana, filosofica e spirituale soprattutto di straordinario ed inattuale coraggio.

Inoltre, dal mondo dei presocratici, proprio da lì dove Eraclito poteva scrivere:«Ascoltando non me, ma il Logos è saggio convenire che tutto è Uno», Saviani mi sembra possa accostarsi al mondo orientale, al pensiero ed alla filosofia orientale (sia hindu, sia buddhista) come bypassando il cristianesimo – intendo qui il cristianesimo come istituzione di potere, dogmatica religiosa, con una sua precettistica morale, e non certo il sentimento religioso o la mistica con le sue inarrivabili visioni, che, anzi, mi sembrano del tutto estranei a questo cristianesimo politico.

Quel «tutto è Uno» altro non è che l’Advaita, ossia la non-dualità; non c’è separazione tra uomo e mondo, tra uomo e divino – esperienza fondante dell’universo filosofico e religioso hindu. Inoltre, se è più che probabile la non verificabilità dell’oltre, come viene affermato, si può però indagare e rintracciare il contatto con il divino. Ma si può dire anche che quell’oltre – e quell’altro da sé – siano comunque in sé, nell’essere. Un oltre ed un altro da sé entrambi originari ed impersonali come l’atman (l’essenza individuale, il Sé). Nelle Upanisad difatti atman e Brahman (l’origine di ogni cosa, l’Assoluto, l’essenza universale) sono equivalenti. L’atman non è immediatamente evidente; va riconosciuto proprio come l’origine perduta, dimenticata o offuscata su cui tanto si è indagato in questo libro.

Sul fulmine, a cui l’autore dedica pagine meravigliose, da gustarsi parola per parola, mi piace aggiungere questo. Innanzi tutto, l’incidenza della dimensione cultuale nell’esistenza: l’interpretazione dei fulmini, ad esempio, erano le due principali forme di divinazione etrusca, affidati ai sacerdoti divinatori. Ed avevano un’importanza capitale nell’organizzazione mentale di quel popolo raffinatissimo. Privato di questa dimensione cultuale, l’uomo avvizzisce fino a spegnersi, diventando una macchina calcolante, oppure, al contrario, inconsapevole preda della new age di turno.

Mentre nell’universo buddhista tibetano, il fulmine è il dorje (tibetano) – o il vajra (sanscrito). Il dorje è un simbolo di grande rilevanza. È indistruttibile. E, con la sua potenza chiarificatrice, distrugge ogni tipo di ignoranza – origine di ogni male per il buddhismo così come per l’illuminismo francese di d’Holbach, Diderot, de La Mettrie ed Helvétius. Rappresenta la tenacia e la fermezza di spirito nel perseguire la distruzione dell’inconsapevolezza. Come oggetto, che ha la forma di un piccolo scettro, viene accompagnato alla campana (gantha). L’unione e l’equilibrio dei due principî, quello maschile (dorje) e quello femminile (gantha), generano conoscenza. Il dorje rappresenta e ricorda anche l’indistruttibilità della conoscenza. Il doppio dorje, poi, è il simbolo dell’Assoluto presente in ogni direzione. Elementi, questi, che mi paiono affini all’approfondita indagine del fulmine, della folgore, del tuono e dell’unione degli opposti che fa l’autore – il fulmine appare anche nella copertina del libro come particolare della Tempesta di Giorgione.

A proposito di un azzeramento del futuro, invece, di cui si è parlato nella presentazione del libro a Roma, ecco, da una mia prospettiva, più che di azzeramento del futuro io parlerei di accelerazione del futuro. È questa accelerazione del futuro che cancella il presente, quasi annullandolo. Si corre, si corre affannosamente verso il futuro, al punto che potrei dire che oggi la forma secolarizzata del trascendente sia proprio il futuro. A danno del presente, della vita nel presente, in quell’istantaneità che può essere data solo dal presente. Perché il passato non è più. Il futuro non è ancora. Potrei dire allora che il bambino che gioca non solo è nel presente pienamente ma è il presente per eccellenza.

Con il gioco, quindi, con il bambino che gioca concentratissimo nel presente, si ha o si avrebbe quasi un contrappeso a questa accelerazione verso il futuro, a questa forma secolarizzata del trascendente, per immergersi in un presente vivo, pulsante e vissuto in totale pienezza e senza separazione dal tutto, e dove l’Attimo o la luce che attraversa improvvisamente l’oscurità sono e danno quel contatto con il mistero, con il divino, con la conoscenza, con l’origine che riempiono e splendono più di qualsiasi trascendenza già costituita e codificata.

La concentrazione sacrale del bambino, la sua forza, l’irruenza, l’immaginazione, la sovrana libertà lo sganciano da qualsiasi fine, da qualsiasi motivazione utilitaristica e, se si vuole, anche morale, rendendolo così estraneo ed immune al potere, a qualsiasi potere, intellettuale, politico e sociale. E quindi temibile per ogni forma di potere. La vitalità, il “cambiamento”, il movimento agiscono contro qualsiasi sclerotico irrigidimento del senex (che potremmo individuare in qualsiasi sapere costituito o dogma religioso). La finitezza disegnata da Saviani risulta così più spirituale di qualsiasi dottrina religiosa. Perché lo spirito è libero; o non è. Forza, immaginazione, libertà investono pertanto anche il pensiero. Un pensiero vivo e vitale che scuote e ridà vita e movimento ad una filosofia che non può essere solo rassegnata rappresentazione della contemporaneità.

Il libro si chiude con un preziosissimo poemetto di Pasquale Panella, Il gioco del mondo (appunto!). Confesso che il suo poema meriterebbe lo stesso sguardo critico dedicato allo scritto più squisitamente filosofico. E non è detto che non lo faccia. Non ora, però; non qui. Ma non posso non accennare, almeno, alla radianza di tanti e tanti suoi versi o alla loro suprema sintesi come quando si legge:«Il mondo è solo il mondo/È, si direbbe, simbolo/solo simbolo del gioco,/o di un gioco, il mondo».

Oppure al tono incantato, disincantato, disincantante e poi di nuovo incantato, che hanno e producono i suoi versi; al suo humor così puro sì che quando scrive a proposito di un nastro da stortare:«L’ha fatto Buddha con una sua panciera» sono scoppiata a ridere, a ridere, a ridere fino alle lacrime. Ed il riso è un inconfondibile motivo nietzschiano; inconfondibile moto di liberazione e di saggezza. Insomma ed infine a me Panella è apparso come un vero puer, un vero fanciullo divino, inimbrigliabile ed incatturabile.

Non so se sono riuscita ad esprimere la ricchezza, la profondità, la complessità, l’audacia e la potenza che questo libro porta a chiunque voglia accostarvisi. Sappiate che, come ogni esperienza autentica, a me ha modificato un certo modo di guardare alla filosofia occidentale più avvinghiata alle proprie certezze e ai propri fondamenti ma soprattutto mi ha regalato aperture, squarci, bagliori sorprendenti facendomi provare quello che Giordano Bruno chiamava «l’eroico furore» ossia l’abbandonarsi a quella contemplazione dove l’anima, «rapita sopra l’orizzonte de gli affetti naturali […], vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».



Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati


(pubblicato sulla rivista QuiLibri on line - 24 giugno 2017)

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