top of page
  • Maria Antonietta Nardone

Van Gogh o l’abisso che ti scruta


VAN GOGH – SULLA SOGLIA DELL’ETERNITÀ

di Julian Schnabel

con Willem Dafoe, Oscar Isaac, Rupert Friend, Mads Mikkelsen, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalrich, Niels Arestrup, Vincent Perez


Se c’è un pittore «che ha scrutato a lungo l’abisso fino a che l’abisso non ha scrutato lui» – come scriveva Nietzsche a proposito degli artisti – ebbene, questi è senz’altro lui, Vincent van Gogh. E questo abisso Julian Schnabel, pittore a sua volta nonché regista cinematografico, ha voluto mostrarci. Riuscendoci, però, solo in parte. In una piccola parte.

Il film si concentra sugli ultimi quattro anni di vita di Van Gogh, dal 1886 al 1890, anno della sua morte. Dall’incontro a Parigi con Gauguin al soggiorno ad Arles, dall'istituto psichiatrico di Saint-Rémy en Provence fino a Auvers-sur-Oise. Ma è un film che non riesce mai a prendere il volo. Le parti più riuscite, quelle che vedono il pittore errante tra boschi e pianure, campi di grano e di girasoli morti, letteralmente irretito dalla luce e dai colori, dalle foglie smosse dal vento e dalla granulosità della terra (movimento e granulosità che porterà nella sua pennellata nervosa e veloce), dalla «meravigliosa, straziante bellezza del creato», come direbbe Pasolini, vengono sistematicamente spente da scene di azione senza vita e senza nerbo oppure da dialoghi incongrui con i vari personaggi, che siano il fratello Theo o Gauguin, il dottor Gachet o un prete; dialoghi tutti fatti di frasi aforistiche e didascaliche che appesantiscono la narrazione e rendono pedante, a tratti, lo stesso Van Gogh, che, nel tentativo di descrivere la sua arte, la svuota della sua stessa forza e viscerale irruenza.

L’interpretazione di Willem Dafoe (che ha vinto la Coppa Volpi come miglior interpretazione maschile all’ultimo Festival del Cinema di Venezia) è impressionante per aderenza fisica e sofferenza interiore, che quasi traspira dal volto incavato ed inciso di rughe nette dell'attore, ma non esprime l’urgenza e la febbrilità della sua pittura optando per un van Gogh dimesso, quasi rassegnato, presago di un riconoscimento artistico solo ed esclusivamente postumo. Né la sfilza di attori noti che interpretano stilizzando oltre ogni limite i ritratti del primo pittore espressionista della storia, da Madame Ginoux al dottor Félix Rey, da Joseph Roulin al dottor Paul Gachet, riescono a dare vita a quello che non è altro che un teatro di maschere calligrafiche. E niente di più.

Nella contemplazione della Natura e nella gioia quasi infantile che sommerge l'inquieto ed irrequieto Vincent, poi, il regista deve tanto allo sguardo creaturale di Terrence Malick. Ma non va fino in fondo. Non si affida alle immagini. L’uso dello sfocato nella parte bassa dello schermo e le parole ripetute che riecheggiano nella testa del pittore sembrano anzi quasi suggerire una sfiducia nelle immagini stesse ed un ricorso alle parole; a parole che non esprimono o animano bensì che spiegano e sentenziano – e non c’è niente di più raggelante e mortifero al cinema!

La visione molto personale di Schnabel arriva perfino a modificare la modalità della morte del pittore olandese, che qui non svelo, e che si poggia sul libro Van Gogh: The Life di Steven Naifeh e Gregory White Smith. Modalità diversa dalla vulgata che il mondo accademico della storia dell’arte, però, non riconosce. Per non parlare poi dei 65 disegni che sarebbero stati ritrovati nell'archivio del Cafè de la Gare di Arles – ancora meno probabile che siano di sua fattura. Il Museo Van Gogh di Amsterdam non ha alcun dubbio in proposito: non sono suoi.

Ma un merito, al di là della sua precaria riuscita cinematografica, questo film ce l’ha ed è indiscusso: mostrando la solitudine estrema, la tenacia, ma soprattutto la dedizione assoluta di Van Gogh per la pittura, ci dice quello che l’arte (e con lei, la letteratura, la musica, il teatro, la stessa filosofia) sono state per cinquemila anni «una questione di vita e di morte» come scrisse Schopenhauer, un’apertura irrinunciabile e vitalissima sull’essenza tragica della condizione umana. Un rischio ed un corpo a corpo che squarciano l’idea addomesticata che se ne ha odiernamente come di un accessorio estetico, di un trastullo per persone colte, di un poiein (fare, creare) assolutamente non necessario quindi del tutto interscambiabile o, peggio ancora, eliminabile.

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati






bottom of page