Nostra sorella stupidità
(Foto della locandina presa dal web)
LEVIATANO
testo di Riccardo Tabilio
drammaturgia di Chiara Boscaro
regia di Marco Di Stefano
con Giulio Forges Davanzati, Alessia Sorbello, Andrea Trovato
Altrove Teatro Studio – Roma
Che ventata di freschezza e di giovanile entusiasmo mi ha trasmesso questo spettacolo, Leviatano, andato in scena all’Altrove – Teatro Studio di Roma!
E davvero originale è questo racconto fatto a tempo di rock sulla stupidità; su un’ingenuità talmente spinta che, purtroppo, diventa stupidità, rocciosa, inscalfibile stupidità. Il testo di Riccardo Tabilio prende le mosse dal libro pubblicato da due studiosi, due psicologi sociali, David Dunning e Justin Kruger, sulla ricerca di una teoria della stupidità, pubblicato nel 1999 (da cui deriverà la definizione EDK, l’effetto Dunning-Kruger) e dal romanzo, Leviatano, di Paul Auster, uscito nel 1992 negli Stati Uniti e nel 1995 in Italia, che racconta la storia di un uomo, Benjamin Sachs, romanziere con grandi ambizioni di fare qualcosa di concreto nella realtà, che si trasformerà infine in un maldestro terrorista.
Ma, che cosa vediamo noi spettatori? Vediamo una storia costruita come un puzzle e di cui si vedrà il disegno intero solo alla fine. Si parte con note e annotazioni personali degli stessi tre attori, Forges Davanzati, Sorbello e Trovato, che poi impersonano via via vari personaggi, avvalendosi di una coperta, uno spolverino, una felpa rossa, una camicia hawaiana ecc. E non solo: cantano e suonano dal vivo noti pezzi musicali degli anni Novanta.
A Pittsburgh, in Pennsylavania, nel 1995, avviene una rapina in una banca. Il rapinatore è a volto scoperto. Detective ed attendente interrogano il cassiere della banca, che sembra piuttosto reticente mentre il direttore della filiale, che non era presente alla rapina, fornisce invece molti e più dettagli del cassiere. Qualche tempo dopo avviene una seconda rapina, con le medesime modalità. Essendo stato quindi riconosciuto, il rapinatore viene arrestato ed interrogato. Si chiama McArthur Wheeler ed è molto stupito che siano riusciti ad arrivare a lui:«Ma come è possibile? Avevo usato il succo di limone in faccia! E il succo di limone, così come cancella l’inchiostro, cancella anche il volto. Io ero invisibile!». Ecco, tra una risata amara e un morso di tristezza, di tristezza profonda, fin dove può arrivare la stupidità di un umano.
Intanto, un brillante studente della Cornell University, Justin Kruger, dà la sua tesi, che prende spunto proprio da questa rapina realmente accaduta, al celebre professore David Dunning per la pubblicazione di una ricerca comune sulla teoria della stupidità. Saltando grafici e proiezioni, la sostanza della loro teoria è questa: alcuni soggetti poco competenti in qualsivoglia materia tendono a sovrastimare la propria preparazione e competenza, stimandole superiori alla media. Questa “distorsione cognitiva” impedisce una reale percezione delle proprie capacità e conoscenze.
Ma il giovane Kruger scopre che il professor Dunning ha pubblicato tutto a proprio nome – lui, Kruger, risulta solo come collaboratore. Bisogna assolutamente ripristinare la co-autorialità del libro. Quanto può essere ingenuo uno studente universitario (e quanto può essere fetente un acclarato professore)!
Tra un tassello e l’altro i tre interpreti suonano e cantano (in realtà due suonano, Trovato, la chitarra, Forges Davanzati, il basso) con convincente grinta diversi pezzi musicali degli anni Novanta, con una scelta che va dai Blur agli Smashing Pumpkins, da Ironic di Alanis Morisette a The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen. Ed è proprio la ballata del Boss, The Ghost of Tom Joad, che immette lo spettatore nello stato umano e sociale da cui proveniva McArthur Wheeler ossia in una società falcidiata di posti di lavoro nella cosiddetta era post-industriale negli Stati Uniti d’America. Una ballata che Andrea Trovato suona e canta talmente bene da avermi fatto vedere tutto quello che questa canzone racconta a proposito di emarginazione e disperazione, «zuppe calde su un falò sotto il ponte», «benvenuti nel nuovo ordine mondiale / famiglie che dormono nelle loro macchine nel sud-ovest / senza casa, senza lavoro, senza pace, senza riposo», «e un buco nello stomaco e la pistola in mano». È questo il paesaggio umano in cui si è trovato a vivere anche McArthur Wheeler. E questo paesaggio, più che al riso, muove al pianto.
Da notare che la canzone di Springsteen, ispirata al protagonista del romanzo Furore di John Steinbeck, Tom Joad, racconta in realtà gli ultimi e i diseredati degli anni Novanta; ma le sofferenze sono le stesse degli ultimi e dei diseredati che sono seguiti alla Grande Depressione del 1929.
Lo spettacolo scivola con agilità e un gran ritmo, grazie alla calibratissima ed inventiva regia di Marco Di Stefano, alle luci incisive, quasi hopperiane di Enzo Biscardi, alla folgorante scelta dei pezzi musicali ad opera del regista Di Stefano (che con gran coraggio ha scelto che fossero fatti dal vivo) e dell’autore Tabilio, e alla interpretazione coinvolgente, autoironica e piena di humor dei tre attori: un camaleontico, bravissimo Giulio Forges Davanzati, che nel ruolo di Clifton Earl Johnson è stato così esilarante da strappare ripetute e sonore risate al pubblico in sala; un’elegante Alessia Sorbello, che ha mantenuto la sua eleganza anche quando si è scatenata in canti e balli energici, ed ha mostrato bei tempi comici ma, soprattutto, una voce piena e bella quando ha cantato nientemeno che Ironic di Alanis Morisette senza sfigurare davanti all’originale. Ed infine Andrea Trovato, divertentissimo, capace di volgere al comico anche momenti assai drammatici – il suo Kruger che corre in bicicletta (simulando la corsa in bici solo con le gambe) per andare a casa di Dunning e chiedere ragione dell’esproprio del suo scritto, è un pezzo di bravura che non si dimenticherà.
Io credo che questo spettacolo spigliato ed irriverente meriti un lungo giro per i teatri del nostro paese, non solo perché non si è sfiorati nemmeno da un attimo di noia, ma soprattutto perché, rinnovando la struttura del racconto teatrale, anche con integrazioni musicali dal vivo trascinanti, è stato capace di far pensare senza alcun plumbeo tono accademico bensì con una grande levità. Di far pensare alle nostre ingenuità, alla nostra stupidità (e alla smisurata misura di essa), alla nostra idiozia, un’idiozia che non ha nulla a che vedere con l’idiozia dell’Idiota di Dostoevskij, il sublime, meraviglioso principe Myškjn, quanto piuttosto ad un’idiozia che può anche essere una stanchezza dell’anima a dover lottare contro la strapotente ferocia di un sistema capitalistico che lascia dietro di sé rovine umane e materiali, «uomini che camminano lungo i binari della ferrovia / andare da qualche parte dove non si può tornare indietro» […] «Aspettando il fantasma di Tom Joad / ora Tom ha detto “Mamma / ovunque ci sia un poliziotto che picchia un ragazzo / ovunque pianga un neonato che ha fame / dove ci sia nell’aria la voglia di lottare / contro il sangue e l’odio / Cercami mamma, io sarò lì / ovunque ci sia qualcuno che combatte / per un posto dove vivere / o un lavoro dignitoso o una mano che dia aiuto / ovunque qualcuno stia lottando per essere libero / guarda nei loro occhi, mamma, vedrai me”» come scrive Bruce Springsteen con tono dolente e sguardo lucido, lucidissimo.
E sia chiaro che parlo di nostra ingenuità, di nostra stupidità e di nostra idiozia non solo perché nessuno può ritenersi immune a ciascuna di esse, ma soprattutto perché con le parole del commediografo romano Terenzio anch’io sostengo:«Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Sono un essere umano, niente di ciò che è umano ritengo che sia a me estraneo)». E quindi, sì, anche la stupidità, non ci è affatto estranea; anzi, la accogliamo. Accogliamo con umiltà anche nostra sorella stupidità così come alla fine accoglieremo «sorella nostra morte corporale, dalla quale nessun essere umano può scappare». Con o senza succo di limone.
Alla fine, un prolungato scroscio di applausi ha accolto i tre interpreti ai ringraziamenti.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
(Foto di @giuseppedistefano)
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