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Maria Antonietta Nardone

La favola delle gemelle sante

INDIVISIBILI –

di Edoardo De Angelis

con Angela Fontana, Marianna Fontana, Antonia Truppo, Massimiliano Rossi, Gaetano Bruno, Gianfranco Gallo, Peppe Servillo


Che film potente, toccante, immaginifico è questo “Indivisibili” diretto da Edoardo De Angelis! Che interpreti magnifiche ed indimenticabili sono Angela Fontana e Marianna Fontana! Che lingua incisiva e naturalmente poetica è la lingua napoletana! Che romanzo di formazione originalissimo innerva la cinematografia italiana di nuova, palpitante linfa!

Sì, perché di questo sostanzialmente si tratta: di una grintosa, tenace ricerca di sé, di una volontà ferma di separazione da quel guscio infantile qui dato e rappresentato dal legame fisico di due gemelle. Di una spinta alla crescita ed all’indipendenza.

Siamo sul litorale di Castel Volturno, dove vivono due gemelle siamesi di diciotto anni, Dasy e Viola, unite fin dalla nascita all’altezza dell’anca. Le due si esibiscono come cantanti neomelodiche in feste varie, cerimonie private e religiose, guadagnando un denaro che non vedono mai, ma che sostenta l’intera famiglia, il padre Peppe, che lo perde al video-poker, la madre Titti, persa tra il fumo di mille canne o di oggetti inutili ed inutilizzati, e due zii dipendenti e vigliaccucci. Perfino il parroco del paese, don Salvatore, sfrutta la loro disabilità per bieco interesse.

L’avvio ad un processo di crescita è dato da due incontri: il primo, con un manager discografico che promette alle due di farle diventare le nuove Anna Tatangelo; il secondo, con un medico che assicura loro di poterle separare, non avendo in comune organi vitali, con un’operazione chirurgica da svolgersi in Svizzera. Dasy, la più curiosa, la più inquieta spinge anche la più timida Viola a ribellarsi ai propri genitori e ad intraprendere una vera e propria fuga nella faticosa ricerca di un percorso individuale.

Quando il film si concentra su questa ricerca di identità e di liberazione, il tono e le immagini sono sempre profondamente favolistiche. Una per tutte, quel tuffo in mare dove avviene psicologicamente la morte dell’infanzia, la prova da superare, l’oscurità da attraversare, l’approdo ad una nuova condizione. E, quando si cerca di riportarle ai vecchi ruoli di quasi “sante” da toccare come portafortuna, l’azzardo, per proseguire il cammino di liberazione, è ancora maggiore. Bisogna sopprimere il vecchio Sé per dare spazio ad un Sé più ampio, più adulto, capace di amare e di amarsi in una maniera più piena e matura. Accanto a questo, vi è poi il rifiuto di recitare un ruolo stabilito da altri, siano essi i genitori, il parroco o il cosiddetto manager discografico. La separazione fisica ed affettiva, quindi, come metafora per eccellenza della crescita.

Per scoprire poi come gli autentici mostri, i veri disabili morali sono parecchie figure del mondo adulto che le circondano, a cominciare dal padre agente-poeta-sfruttatore al parroco imbonitore di anziane ingenue o di immigrati sradicati, che alimenta il culto delle due sorelle assunte quasi a sante per estorcere denaro ai più poveri tra i poveri, da una madre persa, assente e distratta, incapace di difendere le proprie figlie – ma con uno scatto di ribellione e di consapevolezza che sembra riscattarla – al manager dei poveri di spirito e dei fenomeni da baraccone, pronto ad approfittarsi laidamente dell’inesperienza delle due ragazze. Il tutto raccontato in una terra sfregiata dalla bruttezza e dall’incuria, dall’abbandono e dall’immondizia sotto cieli gonfi di nuvole minacciose o colorate dal tramonto ma con un tono, come scrivevo più sopra, quasi fiabesco, che allenta la crudezza della realtà virando su vere e proprie epifanie di onirica liricità.

Si vede così la bellezza nella bruttezza e viceversa (la bruttezza nella bellezza). Entrambe presenti ed intrecciate sì che ora emerge l’una ora l’altra, queste sì indivisibili perché inestricabili. O, comunque, difficilmente separabili; per farlo, ci vuole grande determinazione e grande coraggio – come quello che hanno le due giovani protagoniste.

Tante sono le immagini che restano impresse! Quella della processione sacra e blasfema, con le due con un velo da madonna in testa, i palmi delle mani segnati da stigmate sanguinanti, poste su un carro seguito da devoti oranti al comando del parroco, avido direttore di una comunità-circo di diseredati e creduloni. Oppure quella della lussuosa barca del manager discografico, simile, nella notte, ad un vascello fantasma con il suo carico di orrori esistenziali e di errori della Natura. O, quella finale, che non svelo, tanto intensa quanto sublime.

Ma quello che avvince dall’inizio alla fine è il legame delle due sorelle, descritto con un gran tocco e con altrettanto grande sapienza psicologica: Dasy, la dominante, e Viola, dapprima più paurosa ed indecisa fino alla scoperta di una forza interiore e di un’altezza di sentimento impensabili all’inizio. Quell’amore forte, vero, ed anche duro, che le unisce e le salva.

Le facce intense e bellissime delle due protagoniste sono paesaggi su cui la macchina da presa si posa spesso in primo piano in una miriade di emozioni e sentimenti ed aspirazioni che lascia proprio senza fiato. Sorrisi, lacrime, sguardi, smorfie ed espressioni non abbandonano lo spettatore anche dopo la visione. Irrompe così sullo schermo tutta la forza, la dolcezza e la freschezza dell’adolescenza; dell’adolescenza femminile.

C’è, nel film, qualcosa di sospeso ed un po’ irrisolto nella seconda parte; a me tuttavia non interessa che un film sia “perfetto”. Questa resta una pellicola visionaria e realistica allo stesso tempo, tenerissima e cruda, capace di offrire una delle più feroci e fini critiche della società contemporanea, qui ritratta in tutto il suo sfruttamento cinico e crassamente immorale, anche quando traveste genuini impulsi religiosi con i resti ridicoli di arcaiche superstizioni. Oppure quando mette in mostra e monetizza senza alcuno scrupolo anche la disabilità, l’handicap, la fragilità sia fisica sia emotiva.

La ficcante sceneggiatura è firmata da Nicola Guaglianone, Barbara Petronio e dallo stesso regista mentre la musica di Enzo Avitabile e i testi di Riccardo Ceres sono veri e propri attori accanto agli attori in carne ed ossa di una storia che scorre con un andamento singolare e pieno di fascino.

Le due protagoniste, Angela Fontana e Marianna Fontana, colpiscono per bravura e naturalezza. Non sono da meno Antonia Truppo (il suo sguardo ferito e dolente è da brividi) e Massimiliano Rossi, che portano in più una finezza interpretativa profonda ed efficace.

Annovero “Indivisibili” e “Non essere cattivo” (sicuramente più compiuto) tra i più belli e necessari films italiani visti negli ultimi anni.


Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati





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