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Maria Antonietta Nardone

I portatori di zolfo

Sono a Giava, in Indonesia. A mattino inoltrato, inizia il trekking per il Kawah Ijen (kawah significa cratere). Su per questo vulcano lavorano i portatori di zolfo, i quali trasportano su un bilanciere con due cesti circa 70/80 chili di zolfo estratti dal cratere e guadagnano seimila rupie al chilo. Sono circa centocinquanta uomini. «È considerato uno dei cinque lavori più duri al mondo», così mi dice Latif citando non ricordo più quale organizzazione mondiale. Non so quali siano gli altri quattro, ma questo mi appare, fin dal primo portatore che vedo, di una durezza ed insopportabilità assolute.

I portatori, che fanno un solo viaggio al giorno, salgono in cima per un dislivello di circa 400 metri. Poi scendono nel cratere, dove respirare diventa quasi impossibile, prendono i pezzi di zolfo, li caricano nelle ceste, e lì fanno i primi metri in salita, tossendo ad ogni passo. Il giallo dello zolfo, nuvole sulfuree, lago turchese, calanchi grigi e marroni: sembra un pianeta irreale. Risalgono il cratere, e per fronteggiare l’aria irrespirabile bevono del latte da una bottiglietta che tutti hanno in un fagotto; poi scendono per circa 130 metri di dislivello, pesano il carico su una grande bilancia rudimentale; quindi ricaricano il bilanciere sulle spalle e riprendono a scendere, chi scalzo, chi con delle infradito chi con degli stivali di gomma. I turisti e i viaggiatori che salgono, cedendo loro sempre il passo, danno caramelle, sigarette, biscotti. Sono gli stessi portatori a chiedere queste cose, con una dolcezza, un garbo, un sorriso mite sulle labbra che mi hanno messo a disagio.

Ho visto e documentato fotograficamente in che condizioni sono le loro spalle, con muscoli gonfi e calli enormi che le deforma. Lavorano dai 30 ai 50 anni - ma alcuni mi sono sembrati molto più giovani di trent’anni - e Latif sostiene che vivono quanto quelli che fanno altri lavori e che lui chiama “i locali”.

Non mi esce dalle orecchie il suono dell’oscillazione del bilanciere mentre scendono, veloci e sudati, ma senza affanno. Anche se so bene che tutta questa organizzazione del lavoro è tutta opera dell’uomo, per un attimo non riesco a non chiedermi dove siano l’amore e la pietà di Dio, che qui chiamano Allah. Non mi escono dagli occhi l’espressione dei loro volti, la bianchezza dei loro sorrisi. Una bianchezza che mi appare incongrua, irreale, in questo luogo infernale fatto di esalazioni tossiche, di fumi grigi che oscurano la luminosità del sole. E mi viene in mente il canto yiddish “El Mole Rahamim”(“Signore della Misericordia”), quella melodia, quello strazio della domanda al Supremo, ma con il mite, dolce sorriso di questi portatori di zolfo giavanesi.



Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

La cava di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

La cava di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Portatore di zolfo (Kawah Ijen – Giava – Indonesia, 2008)

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

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