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Maria Antonietta Nardone

Giovanna, la regina ribelle


(Foto di Massimo Titti)

GIOVANNA SOTTO IL SEGO DEL TEMPO

di Adriano Marenco

regia di Alessandra Caputo

con Patrizia Bernardini

musiche di Rodolfo V. Puccio

Teatro Garbatella - Roma

Patrizia Bernardini è magnifica. Impersona con intensità e finezza Giovanna di Castiglia, la regina legittimata a regnare che mai regnò perché la triade maschile, formata dal padre (Ferdinando II d’Aragona), dal marito (Filippo d’Asburgo detto “Filippo, il bello”), dal figlio (quel Carlo di Gand che diventerà l’imperatore Carlo V), la rinchiuse nel castello di Tordesillas, facendola passare per pazza.

Ma fu pazzia o critica della religione cattolica? Ribellione giovanile o virulento anticlericalismo?

Per quanto mi pare di aver capito, si giocano qui due elementi sostanziali: il discorso del potere e il “matto” (il fool) di Shakespeare che di solito è colui che, proprio perché libero da qualsiasi vincolo di potere, “recita” e “dice” la verità oltre ad essere spesso il vero narratore della storia. E autentica narratrice della storia è la regina cancellata dalla Storia.

Riguardo al potere, come ha scritto Foucault, esso non è qualcosa che appartiene a qualcuno ed è subito da chi non lo detiene. Non è una proprietà. È una rete. È un’organizzazione che si gioca in un campo di relazioni, dove viene spinto da un discorso, o meglio a dirsi, da una miriade di discorsi, che danno direzione e senso ad un’oppressione che per quanto compatta lascia sempre spiragli a discorsi diversi, ribelli, anticonformisti. Insomma, è il discorso che domina su un altro discorso. È una narrazione che domina su un’altra narrazione, tanto per usare un termine odierno.

E questo discorso dominante, per difendere se stesso, crea proibizioni e divieti. Come ad esempio, la relazione con il discorso del “pazzo”, del “folle”, del “deviante” che viene eliso oppure ammantato di misteriosi significati in realtà mai veramente presi in seria considerazione.

E Giovanna di Castiglia, pur rinchiusa per 46 anni in un castello-monastero che le fece da prigione, dove subì torture impensabili per una del suo rango, riuscì a raccontare una storia diversa, ribelle, anticonformista. Riuscì a fare il suo discorso da tutti ignorato. Un discorso che viene immaginato e scritto da Adriano Marenco con acume storico e sottigliezza psicologica.

L’epiteto di “pazza”, poi, non è a coprire quella che chiameremmo una “ragione di stato”. No. È l’escamotage con cui l’egoismo e la volontà di potere della sua criminale triade maschile (padre, marito, figlio) trova per usurparle, di fatto, il trono. E perfino la brutale sottrazione di tutti e sei i figli, che per la donna non può che essere devastante, nell’ottica del potere è un dettaglio insignificante.

L’attrice incarna la tragica vita di questa regina indomabile avvalendosi di un cambio continuo di toni, di timbri, di colore musicale della voce che avvincono lo spettatore dall’inizio alla fine dello spettacolo. Sola in scena. Unici accessori: un mantello ed una poltrona. Una poltrona che diventa trono e prigione, galeone e letto, finestra e sudario.

La regia di Alessandra Caputo è essenziale e sensibile allo stesso tempo. Peccato che la sera della replica a cui io ho assistito, per problemi tecnici, non ci sia stata la musica del basso elettrico, e, di conseguenza, anche qualche cambio di luci sia stato mancato.

Intendiamoci: il monologo, diventato ancora più monologo senza l’elemento dialogante del basso, ha funzionato ugualmente. Tuttavia io credo che un’attrice di tale finezza e talento meriti dei collaboratori altrettanto fini e talentuosi. O, quantomeno, ligiamente professionali.


Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati








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