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  • Maria Antonietta Nardone

Il carcere che non c'è


(Foto della locandina presa dal web)



ARIAFERMA

di Leonardo Di Costanzo

con Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco, Nicola Sechi, Pietro Giuliano, Antonio Buìl


Su uno sperone roccioso si innalza la sagoma inconfondibile di un carcere visto da diverse angolazioni. È questo l’incipit folgorante di Ariaferma diretto da Leonardo Di Costanzo. Un film che lascia il segno nell’animo dello spettatore e lo induce a riflessioni profonde sulla sua stessa condizione di uomo.

È un carcere in dismissione: i detenuti sono stati quasi tutti trasferiti in altre carceri. Per un intoppo burocratico, dodici reclusi non possono ancora essere trasferiti. In attesa che si risolva la questione i dodici devono rimanere in questo carcere dove è stata chiusa la cucina, interrotti i colloqui. Ed è in questo tempo sospeso, l’aria ferma del titolo, dove tutto va riorganizzato per ragioni securitarie, che la comunità degli agenti penitenziari e la comunità dei detenuti, dopo uno scontro inevitabile, hanno l’occasione di instaurare una relazione diversa; hanno l’occasione di “incontrarsi” o di rimanere definitivamente separati – dipende come sempre dalla scelta dei singoli individui.

In questo sferragliare di porte e cancelli che si aprono e si chiudono a chiave, in questi rumori di passi, in questo rimbombo di voci, in questo lamento notturno di chi dorme sonni inquieti – sono questi i suoni del carcere, la colonna sonora di questa vita rinchiusa – quello che le due comunità si contendono è il potere; il potere di una comunità sull’altra e il potere all’interno della stessa comunità. L’ispettore Gargiulo vuole far rispettare le regole sia ai detenuti sia ai suoi colleghi. Il detenuto Lagioia, un boss riverito e rispettato dai suoi compagni di detenzione, cerca un dialogo con l’ispettore Gargiulo: cerca di contrattare ed ottenere l’uso della cucina, ad esempio. Ma Gargiulo, fiero della sua coscienza e fedina penale entrambe pulite, mantiene le distanze. Non ha commesso reati, lui, e la sera dorme serenamente. Eppure la camera dove dorme in caserma, così spartana, così monacale, non è tanto lontana dalla cella di un detenuto. E il paesaggio che si vede fuori è lo stesso. Inoltre, l’integerrimo ispettore sembra essere più prigioniero lui, con il suo radicato senso di superiorità, che non il detenuto più autorevole, il quale sembra mentalmente più libero da pregiudizi e rigidità di ruolo.

Di Costanzo inventa questo apologo densissimo e alto di un carcere che non c’è (come l’isola di Bennato che non c’è, ma è saggio e giusto continuare a cercarla), che è diverso dai tanti film dedicati al mondo del carcere. È diverso da Le mur di Guney (non c’è la spietatezza di un carcere minorile di Ankara e la punizione di una guardia sadica); è diverso da Brubaker di Rosenberg (non c’è la volontà democratica della rieducazione e la sconfitta di chi cerca di attuarla in uno sperduto penitenziario dell’Arkansas); è diverso da Il Profeta di Audiard (dove si assiste all’educazione criminale di un giovane francese di origini maghrebine nel carcere di Marsiglia).

È un film questo che interroga tutti noi del mondo di fuori: e come diceva anche il direttore Brubaker del film omonimo i carcerati sono già privati della libertà. Basta. Che altro si vuole loro togliere? Non vanno umiliati, derisi, disprezzati, lesi nella loro dignità. Perché farli vivere in condizioni non dignitose o in carceri cadenti, maleodoranti e sporche? A che e a chi giova tutto ciò?

Anche chi ha sbagliato, chi ha commesso dei reati prova dei sentimenti di pìetas, di compassione, di solidarietà, di amicizia. Perché ingabbiare in una colpa eterna un individuo spogliandolo perfino della sua sostanza di uomo che sente e che pensa? Ma che cosa toglie a noi del mondo di fuori riconoscere l’humanitas di tutti quelli che vivono nel mondo di dentro? Il carcere non dovrebbe essere solo un parcheggio di esseri umani finché non scade il tagliando della pena.

Tante sono le scene memorabili: la sequenza delle celle dismesse con quello che resta a terra, mi ha scavato dentro; lo svuotamento delle tasche di un giovane di nuovo incarcerato (guardate che cosa ha in tasca Fantaccini e se non provate una stretta allo stomaco davanti a quegli oggetti, avete un cuore foderato di spessi calli); per non parlare della sublime, toccante scena dell’orto. C’è poi la scena-chiave, quella che produce un cambiamento nell’animo dell’ispettore Gargiulo: lo slancio e la delicatezza con cui il giovane Fantaccini accudisce e pulisce il più malmesso e disprezzato dei detenuti. È questo il giro di volta nel cuore del probo ispettore. Da quel momento comincia a guardare i reclusi con altri occhi. Ora può riconoscere dentro se stesso che un detenuto è un uomo; che quest’uomo può essere intelligente; che si può collaborare per trovare la soluzione ad un problema comune.

È più un apologo, scrivevo, che una storia realistica; ed è una riflessione sul potere e sul dialogo. Dove c’è potere non c’è (e non ci può essere) dialogo; dove c’è dialogo non c’è (e non ci può essere) potere. Naturalmente il dialogo deve essere un autentico dialogo ossia i due dialoganti devono mettere in conto di poter cambiare idea, l’idea di partenza, diciamo così. E poi il dialogo è tra pari e non tra chi si sente superiore o considera inferiore l’interlocutore. Tra pari che possono farsi confidenze sugli affetti più cari e possono infine camminare uno accanto all’altro, e non come prima, sempre uno davanti e l’altro dietro, uno che sorveglia, l’altro che è sorvegliato.

Come racconta Emma Goldman nella sua autobiografia Living my live: ci sono guardie che si elevano al di sopra della loro divisa, altre invece a cui sembra di onorare la propria divisa solo reprimendo o maltrattando i prigionieri.

Ecco, Gargiulo si è elevato al di sopra della propria divisa mentre il suo collega Coletti no, ad esempio. Così come nella comunità dei detenuti tutti eccetto uno, per una “magica” e quasi irreale sera, sospendono il codice del carcere riguardo ai pedofili mentre Bertoni no, non lo sospende.

Visto il taglio finemente psicologico del film, potrei indagare anche psicologicamente l’iniziale rigidità dell’ispettore Gargiulo e svelare che cosa si celi dietro alla convinzione di essere puro, immacolato, irreprensibile. Potrei ricordare come tutti noi abbiamo luci ed ombre, tutti noi abitiamo sia il bene sia il male, tutti noi abbiamo un punto bianco in una goccia nera e un punto nero in una goccia bianca così come è splendidamente raffigurato nello yin e nello yang del simbolo Taijitu. Potrei, tanto stimolante è stata la visione di questo grande film, ma non lo faccio qui per ovvie ragioni di spazio.

La sceneggiatura firmata dallo stesso regista assieme a Bruno Oliviero e Valia Santella è tesa, tesissima ed ha una forza drammaturgica tutta sua, autosufficiente a cui si affianca la potenza espressiva delle immagini, che, grazie anche alla fotografia di Luca Bigazzi, ora livida ora quasi monocolore ora con grandi chiaroscuri alla Rembrandt, si incide con prepotenza nella mente di chi guarda.

Mi ha molto colpito la colonna sonora composta da Pasquale Scialò che alterna percussioni a suoni stridenti, musica popolare a musica sacra; musiche così potenti, così azzeccate per quest’universo concentrazionario in cui si muove un’umanità dolente e continuamente offesa.

Gli interpreti sono tutti bravi e straordinariamente in parte. Ma la recitazione di Toni Servillo e di Silvio Orlando è semplicemente maestosa. Servillo si spoglia di ogni vocazione istrionica e dona al suo ispettore Gargiulo una compattezza ed una malinconia bellissime. Silvio Orlando, dal canto suo, è prodigioso. La sua figura inscatolata in una giacca della tuta démodé, il volto stretto da occhiali dalla montatura grande ed anch’essa démodé, i suoi silenzi, i suoi sguardi che raccontano tutta una svariata gamma di sentimenti e pensieri, le sue battute sardoniche sono memorabili e regalano agli spettatori una delle sue interpretazioni cinematografiche più riuscite. E questa sua meravigliosa asciuttezza non ha nulla da invidiare ai più grandi attori di scuola britannica. Per una volta, non c’è la solita recitazione urlata, esagitata, caricata oppure biascicata, soffiata, spesso incomprensibile che imperversa in tanta filmografia italiana.

Uno dei libri più intensi e rivelatori sulla condizione carceraria nel nostro paese è quello scritto da Donatella Stasio e Lucia Castellano e intitolato Diritti e castighi (Storie di umanità cancellata in carcere) edito da Il Saggiatore, che racconta le esperienze non solo dei carcerati, ma di tutti quelli che gravitano attorno all’istituto di detenzione sia al di qua sia al di là del “muro” e quindi agenti di polizia, direttori e dirigenti di carceri, educatori, famigliari. Davanti a situazioni oggettivamente intollerabili (sovraffollamento, abbrutimento, violenza) si riaffacciano le domande del direttore Brubaker:«Perché far vivere i detenuti in condizioni non dignitose o in carceri cadenti, maleodoranti e sporche? A che e a chi giova tutto ciò?». E, soprattutto, queste condizioni umilianti come possono portare ad un recupero del recluso? Recupero del detenuto che, voglio ricordarlo, è un principio sancito dalla Costituzione italiana. Ma quanto e come è applicato – quando è applicato?




Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

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