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  • Maria Antonietta Nardone

Attenti al gioco!



Il GIOCO

di Franca De Angelis

regia di Christian Angeli

con Anna Cianca, Alessia Sorbello, Andrea Trovato

Teatro Cometa Off - Roma


Qual è il gioco a cui si riferisce il titolo? Chi è la dottoressa Zeta? E che ci fanno due giovani amorfi e depressi, Agata e Paolo, con cinque biglietti in mano?

Il gioco, in sostanza, è un metodo che la dottoressa Zeta, un tempo psicoanalista, ora consulente filosofica, propone ai suoi allievi per uscire da quella gabbia di depressione e/o paura in cui sono ‒ o si sono ‒ rinchiusi. Si scrive su ciascun biglietto un’azione da fare. Si estrae a caso e ci si attiene alla proposta del biglietto pescato. È un gioco che sembra funzionare: sblocca i blocchi e porta o riporta le persone nella vita, nelle relazioni, o, come sostiene il regista, «a sporcarsi le mani con la realtà» ossia ad immettersi nel flusso cangiante dell’esistenza.

Ma che cosa accade quando si diventa dipendenti da questo metodo al punto da non poterne più fare a meno? Non si ricade così in una nuova patologia che ha lo scopo di sollevare le coscienze dal peso di assumersi la responsabilità di fare delle scelte? E poi dove conduce questo gioco, se preso alla lettera?

La pièce di Franca De Angelis è un pretesto per indagare con levità ed ironia, ma anche con affondi potenti e conturbanti, su temi come destino, libertà, individuazione, etica, responsabilità con un’andatura da giallo filosofico dai risvolti noir che vira verso un epilogo sorprendente e mozzafiato.

Che cosa mi sembra di aver visto in Agata e Paolo? La difficoltà, anzi direi l’assenza di individuazione che sembrano affliggere tante persone del nostro tempo. La mancanza o l’inconsistenza di sogni, di slanci, di aspirazioni, di ambizioni. Una diffusa conformità che porta apatia e, nell’epoca della massima produzione di immagini, la mancanza di immaginazione. Di immaginazione e di creatività. Diversamente, perché ricorrere al gioco delle cinque possibilità? Nietzsche sosteneva che bisogna abbracciare ed amare pazzamente il proprio destino. È questo l’amor fati. Bisogna essere nelle proprie scelte; ed esserci in profondità. Ma per fare ciò bisogna avere coraggio e audacia. Audacia e coraggio non è fare quello che si è scritto a casaccio su un bigliettino estratto a caso. Bisogna avere la necessità di individuarsi, di conoscere se stessi, quello che si è autenticamente (non quello che si crede di essere) e di conoscere e riconoscere la propria “ombra”.

Ecco, la dottoressa Zeta, conosce i suoi aspetti negativi. Ed è generosa con i suoi allievi. Vuole davvero aiutarli. Ma se lei rappresenta un femminile percepito negativamente, un femminile da mettere sotto accusa e processare da una platea assunta ad una corte di giudici immaginari, la vera dark lady di questa storia è Agata. Ma la sua è una dark lady senza consapevolezza e senza intelligenza, abituata ad attribuire agli altri le proprie mancanze o i propri fallimenti; è una dark lady attaccata alle sue piccole “conquiste”, che non vuole assolutamente perdere, tanto da ricorrere ad un piano inaudito; insomma, una dark lady senza qualità. Mentre nella dottoressa Zeta, individuata, anche se non compiutamente risolta, c’è intelligenza, sentimento, pensiero, generosità ed una certa grandezza. E c’è cultura, splendida cultura. Si permette di citare, per la morte di un suo giovanissimo allievo, appena diciassettenne, nientedimeno che Menandro, con quel suo toccante:«Muor giovane colui che al cielo è caro».

Lo spettacolo vola mentre si ride, si pensa, si partecipa, restando inchiodati alla sedia, incantati dal ritmo e dagli stimoli ricevuti. Il testo procede come un marchingegno ad orologeria e in una rete di rimandi sottili in cui tutto si tiene. Nel monologo in cui la dottoressa rievoca la propria madre, la sua bellezza, il suo fascino, la sua perfezione ‒ «perfetta come Mary Poppins o come la Primavera di Botticelli» ‒ e come questa donna tanto ammirata sia stata afferrata da una forma precocissima di alzheimer, da quella gomma crudele che cancella persone, emozioni, fatti e parole azzerando così ogni individualità ed identità. Perché questa gomma subdola cancella prima ancora che la memoria, la propria ed altrui identità, tutto il percorso della propria ed altrui singolarità. Si tocca allora con mano la sua impotenza. Sofferta, straziante impotenza. Lei, la brillante psicoanalista che “cura” con le parole ma soprattutto con la propria personalità; lei, che ha conosciuto le terre desolate del dolore estremo e le ha attraversate ad occhi aperti e con anima senziente, e può quindi attraversare le terre desolate dei suoi pazienti come se fossero le proprie; ebbene, questa stessa brillante psicoanalista ha sperimentato l’impotenza davanti alla malattia degenerativa dell’amatissima madre. È in questa occasione, di disperata impotenza, che adotterà per la prima volta, con se stessa, il gioco delle cinque possibilità. E a me ora viene in mente una nota di Schopenhauer:«Il destino mescola le carte e noi giochiamo».

Tanti, come scrivevo, i motivi di riflessione offerti con una levità che mai appesantisce il testo o lo spettacolo. Dall’accenno alle morali che mutano con il mutare del tempo e che si degradano sempre in mortiferi moralismi (l’etica, difatti, è ben altra cosa come Spinoza e Weber insegnano) all’ineludibile senso di colpa davanti a qualsiasi felicità. Per dirla con Jung:«Il processo di individuazione porta con sé una colpa». Perché la felicità si dà quando si diventa ciò che si è. «Che cosa dice la tua coscienza? Devi divenire quello che tu sei» così Nietzsche chiude il Libro terzo della Gaia scienza. La parte del cervello inesplorata ed inascoltata, di cui parla la dottoressa Zeta, altro non è che l’inconscio che lo psicologo svizzero pone arditamente a potente spirito-guida della propria individuazione ossia della propria felicità.

Dalla responsabilità, così lontana da ogni vittimismo tipico dei depressi, alla libertà. Sì, libertà (e non libero arbitrio che ha una connotazione religiosa qui del tutto assente). Oppure da quella stolta onnipotenza che mette a rischio la vita stessa, quasi fosse un giochino di società, depauperandola di tutto il suo senso, il suo significato e la sua sacralità. O, per finire, alla stessa psicoanalisi, bonariamente canzonata, che quanto più si pensa di sotterrarla una volta per tutte tanto più riemerge vincente e trionfante nella sua persuasiva e per molti versi salvifica mantica dell’esistenza.

E potrei continuare parlando di Eraclito, e del bambino che gioca a dadi, che porta, in un’ideale linea di pensiero, ai già citati Schopenhauer e Nietzsche. Mi fermo per non appesantire questo articolo che non è un saggio filosofico. Del grande pensatore presocratico mi limito a riportare solo questa frase:«L’uomo è più vicino a se stesso quando raggiunge la serietà di un bambino intento nel gioco». Appunto, quella serietà del fanciullo divino sganciata però da ogni scopo e da ogni azione che non sia esclusivamente quella del gioco. Un fanciullo che è lontano anni luce dall’azione utilitaristica che muove e smuove l’adulto.

Io credo che Franca De Angelis stia tracciando, con i suoi diversi testi teatrali, un percorso drammaturgico singolare e pieno di fascino. Un percorso, che pur mantenendo un tono lieve, è capace di sondare i massimi temi dell’esistenza con una misura ed una grazia rare.

Se in Sissi Boy – La conferenza del Sig. S.B. era l’annientamento dell’eros, con tutto il dolore che esso comporta, ad essere indagato con cura e con compassione; se ne La parrucchiera dell’Imperatrice ossia la vera storia della principessa Sissi emergeva il conflitto tra il desiderio di immortalità della parrucchiera e il desiderio di libertà dell’Imperatrice, con Il Gioco, invece, viene mostrato il nocciolo oscuro del tempo in cui viviamo: un tempo, anzi un vero e proprio zeitgeist (spirito del tempo), che non vuole individui, ma esseri depersonalizzati e dipendenti, non vuole soggetti liberi e responsabili, non ammette audacie e grandezze, e depotenzia, se non silenzia del tutto, pensiero, sentimento e creatività.

La regia di Christian Angeli è essenziale anche nel mantenere un bell'equilibrio fra i tre personaggi (fermo restando che il personaggio della dottoressa Zeta rimane quello più indagato ed approfondito). Una regia volutamente defilata, che ha dato molto spazio alle interpretazioni degli attori, è risultata straordinaria nel ritmo, nel disegno pulito dei vari quadri e nella bella trovata del video che suggerisce la grata del seminterrato da cui si vedono scorrere gambe di passanti per definire lo spazio interno da quello esterno. Aiutato, in questo, dalla scenografia minimalista di legno bianco in stile scandinavo di Katia Titolo, dalle luci puntuali e suggestive di Giacomo Cursi e dai costumi centrati ed efficacemente connotativi di Marco Berrettoni Carrara ‒ magnifico il suo lavoro ne La parrucchiera dell’Imperatrice ossia la vera storia della principessa Sissi, un lavoro che mi piace lodare qui ancora una volta.

Molto bravi ed affiatati i tre attori che non si sono risparmiati nel delineare i vari aspetti dei rispettivi, diversissimi personaggi.

Andrea Trovato interpreta con leggiadria l’aspirante attore di teatro a cui manca determinazione e talento, ora tenero ora vigliaccuccio, simpatico solo nel suo desiderio di abbordare Agata e nella sua gratitudine per la dottoressa che l’ha fatto uscire, grazie al gioco, dalla palude della propria insignificanza; inventa inoltre per il suo Paolo notevolissimi ed eleganti momenti comici.

Alessia Sorbello, che è cresciuta tantissimo rispetto allo studio di questa messinscena vista un anno e mezzo fa al Teatro Gasometro, dà corpo al non facile personaggio di Agata, che da sfigata abbrutita in un letto disfatto si trasforma in pubblicista in ascesa, poi in donna che difende il suo piccolo recinto di sicurezze quotidiane accennando a manipolazioni che ricordano una Lady Macbeth in versione casalinga fino a diventare una stravolta, impersonale ed inquietante dark lady. Un’Agata convincente, quindi, con certi passaggi da un aspetto all’altro che andrebbero definiti più nettamente, specie nella parte finale (almeno nella replica che ho visto io).

Anna Cianca incarna una strepitosa dottoressa Zeta. Tocca tanti registri con una disinvoltura magistrale: è provocatoria, arguta, tosta, tenera, disperata, sarcastica. Quanto più ha contenuto la sua recitazione tanto più è risultata esplosiva. Quel suo sbigottito stupore davanti alle défaillances della madre, colpita dall’alzheimer, quella sua dolente e straziata incredulità, non riesco ancora a togliermele dalla mente e dall’anima. Attrice meravigliosa che, nel monologo finale, lascia lo spettatore senza fiato e come stordito dall’intensità della sua prestazione. Talmente stordito ed appeso alle sue parole che applausi scroscianti e liberatori sono scattati solo qualche secondo dopo la fine dello spettacolo. Io credo che questa sua prova resterà un’interpretazione memorabile nella storia del teatro italiano (e non solo). Nella mia galleria personale di spettatrice non più giovane, è una prova affiancabile, per altezza recitativa, a quelle più memorabili di Mariangela Melato, Valeria Moriconi, Anna Proclemer ed Anna Maria Guarnieri. Non ho alcun imbarazzo né paura a sostenerlo.

Applausi forti ed ostinati hanno infine accolto tutti e tre gli interpreti di questo “gioco” teatrale potente, avvincente e straordinariamente stimolante. E, mirabile dictu, mai noioso. Mai, nemmeno per un istante!




Maria Antonietta Nardone© Tutti i diritti riservati


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