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Un'interminabile vecchiaia

  • Immagine del redattore: Maria Antonietta Nardone
    Maria Antonietta Nardone
  • 10 apr
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 11 apr


(Foto della locandina presa dal web)
(Foto della locandina presa dal web)

 PIOGGIA

 testo di Franca De Angelis

 regia di Christian Angeli

 con Patrizia Bernardini, Anna Cianca, Gemma Costa, Giovanni Sansonetti

 Teatro Trastevere – Roma

 


Piove da dodici anni fuori dall’appartamento in cui vivono tre vecchi di cui si è perso il conto dell’età: Vi, in sedia a rotelle, Ma, con il deambulatore, e Lu, con un bastone da ipovedente. Appaiono in camicia e cappello da notte bianco; il loro incarnato è altrettanto bianco, e tanto bianco da risultare cadaverico, per non parlare di una pelle ormai incartapecorita.

   Tra ricordi che fanno fatica ad affiorare, parole che le orecchie fanno fatica a sentire, puzzette che non si riesce a trattenere, i tre protagonisti attendono l’arrivo della nuova badante, la badante n. 54, che è un androide programmata a soddisfare tutte le loro esigenze.

   Si apre così lo spettacolo Pioggia, scritto da Franca De Angelis e diretto da Christian Angeli. E, fin dall’inizio, il tono è quello di un testo intriso di humor nero e di folgoranti battute degne della miglior commedia all’italiana.

   Arriva Chiara (acronimo di Care Health Incredible Awesome Rare Assistent), un prototipo di badante androide, di rosso fuoco vestita, e plana sulle loro esistenze come una Mary Poppins per vegliardi, destinata ad accudirli nelle più incresciose incombenze quotidiane, ma anche a sollevare loro l’umore, semplicemente ascoltandoli, o mettendosi a giocare con loro e ribattezzandoli Bambino Vi, Bambino Ma e Bambino Lu.

  Ed è proprio dai loro racconti che noi spettatori apprendiamo che i tre uomini decisero di andare a vivere insieme quando avevano circa settanta anni perché, non essendoci all’epoca alcuna norma sul suicidio assistito («al massimo, ci si buttava dal balcone o si ricorreva al gas, ma l’esito non era sicuro»), potessero decidere liberamente quando fosse stato il momento di lasciare questo granello di terra a cui si è tanto attaccati «come una cozza allo scoglio» ed aiutarsi a vicenda in questa definitiva fuoriuscita dal mondo.

   Mentre Chiara, programmata anche per raggiungere una propria indipendenza, simile all’autonomia degli umani, incamera parole, atteggiamenti e stati d’animo nuovi (ironia, sarcasmo, malinconia), e snocciola, a richiesta, la definizione di “coscienza” e di “anima”, sia pure con meccanica cadenza, si delineano, a poco a poco, le vite passate di Vi, di Ma e di Lu. Si definiscono anche le défaillances e certe indecorosità di una vecchiaia inverosimilmente avanzata.

   In questa ultradecennale convivenza, non c’è stata alcuna malattia (trapianto, chemio, Parkinson) o alcuna disabilità (cecità quasi totale, sordità, perdita dell’uso delle gambe) a convincerli che la morte sarebbe stata preferibile alla vita, a quel tipo di vita così ridotta e mortificata perché:«Le gambe sono sopravvalutate» commenta Vi; anche «la salute è sopravvalutata» chiosa Ma.

  Lo spettacolo si svoltola quindi su un tema serissimo, trattato però in una maniera irriverente e scanzonata. Anzi, direi, canzonata. Eh, sì, perché vi sono parti cantate come il “Siamo qua”, che ha un sapore quasi brechtiano (Siamo qua / Grazie a centosei trapianti /, Chi ci fermerà / Senza scrupoli o rimpianti. / Che modernità, / con i soldi tutto posso, / Meraviglie del progresso, / Tutto è meglio del trapasso!) o il tragico canto gregoriano di “Libera nos Domine”, («Libera nos Domine. / Dal terribile spavento / Che per una vita intera / Non ci fa seguire il vento, / Libera nos Domine. / Dalla prova che è più forte, / Dall’ultimo limite, / dal terrore della morte. / Libera nos Domine»)!

   D’un tratto, Lu, il più lucido, l’artista che non ha dimenticato affetti e sentimenti, comunica a tutti la sua decisione di rispettare il patto che presiede a questa convivenza: vuole morire. La notizia sconvolge Vi e Ma, i quali si muovono con nuove perorazioni a dissuadere Lu dalla sua infausta decisione e ad avere come alleata Chiara nel loro intento di continuazione dello status quo. Non proseguo oltre per non svelare l’inaspettato e sorprendente finale.

   Dirò solo che, alla fine, Chiara, il prototipo di androide, si rivelerà più umana degli umani (toccante la sua scoperta delle lacrime) mentre i personaggi Vi e Ma risultano i più irrigiditi in un egoismo inscalfibile a qualsiasi non dico pensiero, ma nudo buon senso, esprimendo un attaccamento alla vita, sia pur deturpata da malattie croniche e gravissime, sopraggiunte disabilità, che si manifesta per quello che è: una ferocia rapace ed egoista (a proposito di quel ritenuto innocuo invito «guarda l’uccellino, guarda l’uccellino!»).

   Il nuovo testo di Franca De Angelis è un invito a più riflessioni sulla durata della vita, su quanto e, soprattutto, perché prolungarla sine die quando la vita diventa una brutta e quasi oscena caricatura di se stessa. La società occidentale, in questo inizio di Ventunesimo secolo, non ha solo un terrore supremo della morte, e l’ha praticamente rimossa dalla vita quotidiana degli individui, ma propende per una lunghezza della vita, quale essa sia e in qualsiasi modo, bypassando il non bypassabile deperimento fisico, l’invecchiamento cognitivo, l’atrofizzazione di ogni sentimento o istinto che non sia quello dell’autoconservazione.  

   Certo, l’autrice si è lasciata ispirare dal Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov e, con istanze più contemporanee, da Klara e il sole di Kazuo Ishiguro, ma il centro della sua attenzione si è posato soprattutto sulla vecchiaia. Su che cosa sia oggi la vecchiaia, come viene esperito e percepito questo tempo (per chi ci arriva) nella vita dell’Homo sapiens.

   E sulla vecchiaia, sul declino fisico, sulla morte e la loro accettazione o non accettazione ha scritto pagine memorabili James Hillman nel suo La forza del carattere. Innanzi tutto la vecchiaia è la rivelazione di quello che siamo autenticamente:«Di un albero giovane non si può dire che cos’è o sarà finché non lo vediamo al completo. Così un vecchio viso. Il carattere si rivela solo alla fine della vita. La vecchiaia è la manifestazione suprema del carattere e in questo senso è la manifestazione piena dell’essenza». Naturalmente Hillman sta parlando di una vecchiaia certo infragilita dal peso degli anni, ma di una vecchiaia ancora piena ed autonoma. E ne riporta gli aspetti positivi individuali e collettivi. Nella tragicommedia di De Angelis, invece, sono rappresentati gli aspetti più inquietanti e negativi: c’è questo abbarbicarsi comunque alla vita quando non solo le possibilità del proprio corpo sono ridotte alla pura sopravvivenza, ma soprattutto quando non si hanno più ricordi, pensieri, idee, sentimenti e progetti che non siano concentrati esclusivamente su questa sopravvivenza fisiologica. I progressi in ambito medico hanno reso la vecchiaia non più duratura bensì interminabile. È forse questo abbarbicamento alla vita un progresso etico e spirituale della “stirpe” umana?

   La longevità, tanto lodata in antichissime culture, è una cosa; il prolungamento dell’esistenza a qualunque condizione è un’altra. E  non accettare la morte come un naturale passaggio dell’umana esistenza è non solo la prova di quanto si sia regrediti rispetto alla sapienza diffusa dei greci antichi o alla tradizione cinese vecchia di oltre seimila anni, ad esempio, ma è soprattutto la manifestazione di una gravissima patologia psichica che investe l’odierna società. E così, alla fine, mi sembra di vedere i vecchi Vi, Ma e Lu, anche per come sono vestiti, con quella camicia da notte che richiama una camicia di forza, come i decrepiti pazienti di un ospedale psichiatrico, autoprigionieri del loro insano desiderio di una vita senza fine.

   Questo attaccamento, inoltre, rivela una ferocia anche classista; solo chi ha i soldi può permettersi di prolungare il più possibile la propria esistenza.

   Le canzoni, pur piacevoli da sentire e con movimenti scenici belli da vedere, non immettono prospettive nuove al testo in prosa, ma lo ribadiscono, facendo come una sorta di compendio della situazione, allentandone però la tensione. E questa spezzatura del ritmo mi pare nuoccia alla compattezza del testo e della stessa messinscena. L’ultima canzone cantata da Chiara, l’androide umanizzatasi, raccontando il nuovo sentimento di dolore per una fine imminente, mi è parsa al contrario necessaria e non ridondante come le altre.

    La regia di Christian Angeli è nudamente sostanziale e si avvale di tempi e di ritmi quasi “perfetti” – soprattutto di tutta la parte in prosa –  oltre che di una compostezza assai attraente.

   Essenziale la scenografia di Claudia De Palma e Giorgia Loser a cui è sufficiente un parallelepipedo rettangolo bianco, un pannello bianco e due tubature argentee per suggerire tutto un ambiente asettico e simil ospedaliero.

   Piene e potenti le luci di Massimiliano Maggi che illustrano con nitidezza i movimenti dei protagonisti senza dar loro alcuna profondità – perché la piattezza delle loro esistenze non prevede ombre né profondità di alcun tipo.

   Bellissimi i costumi di Giovanni Marzi: se ho trovato sommamente esilarante la scelta di quel copricapo da notte, l’idea della candida linearità della lunga camicia da notte, quasi una tunica da ministranti, mi ha suggerito infine l’immagine di un sudario indossato anzitempo.

   Il lavoro e la direzione musicale di Francesco Polizzi ha proposto canzoni eleganti e pulite nonché con una notevole capacità di sintesi linguistica sia nello sberleffo sia nel tono più alto e sublime.

   Coinvolgenti ed accurati i movimenti coreografici firmati da Gemma Costa, capaci di trasmettere con semplicità le diverse condizioni di tutti i protagonisti, dai tre anziani alla più giovane.

    Affiatatissimi e molto “in parte” tutti gli interpreti: Giovanni Sansonetti incarna un Ma smemorato ed estroverso; Anna Cianca, che si cimenta in un Vi cinico e strafottente, esalta la forza delle battute “divertenti” con espressioni, toni e gesti tutti magistrali; Patrizia Bernardini è un Lu dubbioso, conscio della propria fragilità, l’unico che si riaggancia ad affetti e sentimenti passati con dolente nostalgia, e l’attrice è molto raffinata nel rendere appieno tutte le sfumature del suo personaggio; Gemma Costa, infine, è tanto brava quanto misurata nel tratteggiare Chiara, l’androide a tempo determinato, come un’istitutrice anni Cinquanta, con culottes tutte pizzi e merletti da bambola, ed ha movimenti, toni ed intonazioni riuscitissimi e calibratissimi. Commovente la sua interpretazione della canzone nel pre-finale quando canta:«Viva, come una bambina vera, […] Pur mi sono innamorata ormai – strano sai – di questo cielo sempre grigio. […] La paura del silenzio che ci sarà di là / Mi fa disperare e poi sperare / In un’anima per me – anche per me, chissà…».

    Una cascata di applausi ha accolto interpreti, regista, e tecnici vari ai ringraziamenti della prima a cui ho assistito. Del resto, come inconfondibile segnale di gradimento, c’erano stati molti applausi a scena aperta e tante, tante risate in questo spettacolo dove si ride, sì, ma si è indotti anche a pensare a quanto sia spietata ed egocentrata (e molto poco sapiens) quest’interminabile, sfinente vecchiaia.

   E mi piace concludere questo mio pezzo con il teologo Andrea Grillo che nel suo  Dialogo tra La Filosofia, La Teologia e La Morte così fa dire a La Filosofia in risposta a La Morte:«Addio, rivelatrice della miseria umana. Non sono un dio. Questo è già qualcosa».

 

 

 

 

 

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

 

 

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