La forza di Eunice

(Foto della locandina presa dal web)
IO SONO ANCORA QUI
di Walter Salles
con Fernanda Torres, Selton Mello, Valentina Herszage, Marjorie Estiano, Gabriela Carneiron Da Cunha, Luiza Kosovski, Bàrbara Luz, Cora Mora, Guilherme Silveira, Antonio Saboia, Pri Helena, Fernanda Montenegro
E chi non avrebbe desiderato far parte di una famiglia che ha una casa davanti all’oceano dove nuotare, giocare a pallavolo sulla spiaggia con gli amici (oggi si chiama beach-volley), o a pallone con gli amichetti per strada, prendere il sole spalmandosi coca cola come crema solare o farsi confidenze sotto l’ombrellone?
Una famiglia dove risuonano voci e allegrie, accoglienza e affetto, battute ed ironia, complicità o contese tra fratelli e sorelle? Siamo a Rio de Jaineiro, nel 1970, e nella casa della famiglia Paiva, composta dal padre Rubens, ingegnere ed ex deputato del partito laburista, dalla madre Eunice, che dirige e controlla con sorrisi e qualche severità l’intera brigata famigliare, e dai loro cinque figli, quattro femmine di diverse età, Veroca, Maria Eliana, Ana Lùcia (Nalu), Maria Beatriz, ed un maschio, Marcelo, c’è un viavai continuo di amici dei genitori o dei figli, e c’è sempre un posto a tavola per gustare il famoso soufflé di Eunice.
In questa vita felice, talora, affiora qualche inquietudine: Veroca che rientra tardi perché fermata dall’esercito assieme ai suoi amici; l’amico libraio ed editore che, preoccupato per la situazione sociale e politica del suo paese, decide di trasferirsi a Londra esortando Rubens a seguirlo con tutta la famiglia. Ma Rubens, il dolce capofamiglia, ritiene eccessive queste inquietudini e decide di rimanere – anche perché sta costruendo una nuova casa dove andare a vivere.
Ma le dittature non bussano; loro entrano sicure nella vita di ciascuno e la stravolgono irrimediabilmente. Un mattino di gennaio nel 1971, difatti, uomini armati, in borghese, si presentano nella casa dei Paiva e, con la scusa di una deposizione in tribunale, prelevano Rubens. Non è dato sapere dove sia stato portato. Non è dato sapere quando ritornerà a casa. Si deve attendere. E basta. Sfamando, tra l’altro, anche questi uomini in borghese – non si sa se poliziotti o militari dell’esercito.
E da qui, dopo una segregazione di 12 giorni in un centro di detenzione e tortura, finalmente rilasciata, parte la lunga battaglia di Eunice per sapere che fine abbia fatto il marito Rubens e perché emerga, prima o poi, la verità di quanto accaduto. Parte anche la necessità di reinventarsi una vita e un lavoro, in una città diversa, San Paolo.
Il film è tratto dal libro di memorie Ainda estou aqui (2015) scritto da Marcelo Rubens Paiva, il figlio di Rubens, che racconta tutto il percorso fatto dalla madre per ottenere quantomeno la verità sulla sorte del marito scomparso – la giustizia, no, quella non è contemplata – e getta più di una luce sulla dittatura militare brasiliana, non meno feroce di quella cilena o argentina, ma sicuramente meno conosciuta, e sulla sorte dei suoi desaparecidos.
La bravura del regista Walter Salles, che si è avvalso dell’eccelsa sceneggiatura scritta da Murilo Hauser e Heitor Lorega, è nel racconto di un dramma individuale, quello della famiglia Paiva, capace di illuminare il dramma collettivo di un intero paese oppresso da ventuno anni di dittatura militare. E lo racconta senza ricorrere ad alcun patetismo né ad alcun didascalismo retorico. Lo fa in una maniera asciutta, mostrando, semplicemente, il susseguirsi dei fatti. E basti il modo misuratissimo in cui è stata narrata la detenzione di Eunice, gli interrogatori, il luogo della sua prigionia, a conferma di quanto sostengo. E questa misura, tra l’altro, amplifica la paura e l’incertezza sul proprio stesso destino.
Quello che mi ha colpito è vedere e constatare come la tortura e la violenza non si abbatta solo sull’individuo che letteralmente sparisce senza che se ne abbia traccia per decenni, ma si estende a tutti i suoi famigliari per anni ed anni. E non mi riferisco ai problemi logistici che insorgono (conti correnti a cui non viene dato accesso, svendita di beni, ridimensionamento del tenore di vita ecc.) quanto piuttosto ad un dolore che non ha fine; ad un trauma che non potrà mai essere trattato o sciolto anche se, dopo oltre un quarto di secolo, si riuscirà ad ottenere uno scampolo di verità sull’accaduto.
Efficacissima la fotografia di Adrian Teijido, che passa dai colori caldi e pastosi, intervallati dai filmini famigliari di Veroca, alla cupezza delle celle di detenzione e delle stanze degli interrogatori, dall’ariosità dei cieli sull’oceano alla terribile immobilità di una casa svuotata di mobili e di vita, con puntuale maestria. Splendide le scenografie di Carlos Conti che tuffano lo spettatore nei periodi e nei luoghi in cui via via si svolgono le azioni; la stessa immedesimazione avviene anche con i costumi di Cláudia Kopke. Evocative le musiche di Warren Ellis. Altenato il montaggio di Alfonso Gonçalves, ora più deciso ora più piano, a seconda della condizione psicologica da esprimere.
Gli attori sono tutti straordinariamente intensi ed autentici nella resa dei loro personaggi. Selton Mello è il dolce e “sfortunato” Rubens, Valentina Herszage è la ribelle Veroca che gira con la sua cinepresa filmini di famiglia e non solo, Luiza Kosovski è Maria Eliana, la figlia imprigionata in un primo momento assieme alla madre, Bàrbara Luz è la riccia Nalu, che fuma sigarette di nascosto, Cora Mora è Maria Beatriz, a cui cade un dente da seppellire nella sabbia, Guilherme Silveira è Marcelo bambino, vivace e furbetto, Antonio Saboia è Marcelo adulto e Fernanda Montenegro (la madre di Fernanda Torres, superba ed indimenticata interprete del film Central do Brasil del 1998 sempre dello stesso Salles) è Eunice da anziana, a cui dona una smemoratezza che non tocca però la memoria del suo amato Rubens.
Ma il film non esisterebbe senza la presenza imprescindibile di Fernanda Torres nel ruolo di Eunice Facciolla Paiva. Che prodigio di attrice è Fernanda Torres! Tutto, tutto trascorre sul suo volto sensibilissimo! Una gamma di sentimenti e stati d’animo che vanno dalla paura alla rabbia, dalla dolcezza all’indignazione, dal dolore all’amarezza, dalla tenacia allo sconforto, dal coraggio all’amore, con una naturalezza ed una misura che sono appunto artisticamente prodigiose – starei quasi per dire sovrumane tanto alta è stata la sua prova d’attrice. E tante sono le scene che la rendono memorabile. Commuove la volontà della sua Eunice di proteggere i figli più piccoli impedendo alle figlie maggiori di parlare in casa o in macchina di quanto realmente accaduto al loro padre, smussandone inoltre la giusta rabbia, ad esempio. Ma in una scena, l’interprete carioca mi ha davvero scavato il cuore: quando Eunice è al bar con i suoi figli, seduti tutti presso un tavolino per mangiare un gelato, guardandosi attorno, vede altre famiglie, tutte al completo, ridere e scherzare, e lei, proprio in quel momento, realizza che la sua famiglia non avrà più un padre per i suoi figli né un marito per lei. Guardate come il suo volto esprime questa amara consapevolezza, cercando peraltro di dissimularla davanti allo sguardo affettuosamente indagatore delle figlie maggiori, e vi renderete conto di cosa sia la recitazione quando essa è arte; arte purissima.
Questi sono i film incentrati sulle dittature sudamericane che mi sono venuti in mente subito dopo la visione di questo film: Missing – Scomparso (1982) di Constantin Costa-Gravas, Il bacio della donna ragno (1985) di Héctor Babenco, La storia ufficiale (1985) di Luis Puenzo, La notte delle matite spezzate (1986) di Héctor Olivera, La morte e la fanciulla (1994) di Roman Polanski, Garage Olimpo (1999) e Figli/Hijos (2001) di Marco Bechis, Argentina, 1985 (2022) di Santiago Mitre. A cui ora aggiungo Io sono ancora qui (2024) di Walter Salles.
Un film intenso nei sentimenti e di ferma forza civile, che descrive quanto avviene durante una (qualsiasi) dittatura attraverso gli occhi e la lotta di una donna indomita e testarda: arbitrii, minacce, sorveglianze, intimidazioni, violenze, torture, menzogne, sparizioni, morti ecc. Davvero c’è ancora qualcuno in questo “granello di sabbia” sparso nell’universo e chiamato terra che desidera e rimpiange le dittature? E ne vorrebbe una, tutta nuova di zecca, nel proprio paese?
A me piace pensare che «si può sperare che il mondo torni a quote più normali, che possa contemplare il cielo e i fiori, che non si parli più di dittature», come cantava Franco Battiato nell’ultima strofa di Povera patria; per concludere così:«Se avremo ancora un po’ da vivere, la primavera intanto tarda ad arrivare».
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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