Rompi le pareti della tua prigione

(Foto della locandina presa dal web)
IL SEME DEL FICO SACRO
di Mohammad Rasoulof
con Soheila Golestani, Missagh Zareh, Mahsa Rostami, Setareh Maleki, Niousha Akhshi
Che film duro e bello è riuscito a girare Mohammad Rasoulof nonostante tutte le pressioni, le minacce e le assurde condanne che lo hanno raggiunto!
Che film sconvolgente ha girato, capace di illuminare la vita quotidiana in un paese, l’Iran, letteralmente strangolato da una teocrazia imbelle e brutale!
A Teheran, Iman è appena stato promosso a giudice istruttore del Tribunale della Rivoluzione. È il coronamento di un avanzamento di carriera tanto sognato dopo vent’anni di lavoro nella magistratura ordinaria. Questa promozione, però, comporta il mantenimento della segretezza sul suo lavoro da parte di tutta la sua famiglia, la moglie Najmeh e le due figlie, Rezvan, che frequenta l’università, e Sana, che va ancora al liceo.
Iman è un uomo fortemente devoto – va a pregare in un santuario poco fuori Teheran subito dopo aver appreso della sua promozione. È un marito certo distratto riguardo alla crescita delle figlie, perché molto occupato nel suo lavoro, ma è tutto sommato un uomo mite che delega la conduzione della vita famigliare alla moglie, tanto volitiva quanto autoritaria.
C’è già una spaccatura in questa famiglia; se Iman e Najmeh seguono rigidamente tutte le direttive di uno stato autocratico, le figlie Rezvan e Sana non credono alle bugie del regime propagate in televisione e reclamano per se stesse una libertà ed un’indipendenza al momento quasi del tutto sconosciute in Iran. Vedono di nascosto sui loro cellulari le immagini delle proteste che hanno attraversato tutto il paese in seguito alla morte di Mahsa Amini nel settembre 2022, che non è morta per un ictus, come sostiene l’autorità giudiziaria, bensì per le botte subite dagli uomini della Polizia morale che la accusavano di portare male l’hijab. Anche noi spettatori vediamo queste immagini, documentari girati fortunosamente dagli stessi manifestanti che fanno praticamente quel lavoro giornalistico che i giornalisti organici non possono e non vogliono svolgere; e sono brividi di sconcerto e di dolore.
Vedere ragazze e ragazzi brutalmente picchiati da uomini in divisa è una vera sofferenza. Così come è una vera sofferenza vedere il volto di Sadaf, un’amica di Rezvan, incappata per caso in una manifestazione di protesta, essere devastato dai pallini di piombo sparati dalla polizia. Non dimenticherò facilmente la scena dell’estrazione di questi pallini di piombo dal viso tumefatto e sanguinante della povera Sadaf. Così come non dimenticherò la spietatezza di Najmeh nei confronti di Sadaf; una spietatezza che agghiaccia le vene. È vero che è lei che passa il codice di comportamento adeguato alle figlie; è vero che in questo c’è anche una forma di protezione delle figlie stesse, ma il suo comportamento impietoso è veramente orribile. Anche se poi, molto ambiguamente, cercherà presso una sua amica di conoscere la sorte della ragazza frattanto scomparsa.
Il giro di volta della storia è dato dalla sparizione della pistola (che rappresenta concretamente lo strumento di controllo sia individuale sia del regime) che è stata data al giudice Iman per difesa personale. Iman, pressato dal suo collega, timoroso di avere ripercussioni o, addirittura, un declassamento, o peggio ancora una detenzione in carcere, dà sfogo ad una condotta di delirante paranoia, che diventa via via più esplicita e crudele, sottoponendo la moglie e le figlie a violenze inaudite. La pistola sottratta rappresenta soprattutto la volontà di disarmare il potere costituito – e non di ricorrere alla resistenza armata.
Va detto poi che il turbamento di Iman, appena promosso giudice istruttore, nel firmare la condanna a morte, anche di ventenni, senza nemmeno aver letto i relativi fascicoli, dura pochissimo; pur di non perdere l’ambita carica raggiunta, cede alla pressione della volontà dei suoi superiori. Ad un certo punto, difatti, non ascolterà più la voce della sua coscienza, ma si adeguerà a seguire tutti i diktat della Repubblica Islamica, percepita, erroneamente, come un potere superiore alla propria stessa coscienza. E, riguardo alle proteste delle giovani per le strade dell’intero paese, sosterrà testualmente «che quelle ragazze sono tutte sgualdrine che vogliono solo camminare nude per strada» (sic!).
Ma quello che stupisce è la reazione forte e coraggiosa di entrambe le figlie, Rezvan e Sana. Nonostante il ricatto dell’affetto filiale operato dal padre, le due giovanissime non si arrendono e lottano, alla fine, letteralmente, per la loro libertà e per la loro vita. Difficilmente dimenticherò la forza della loro opposizione al padre e a tutto quello che costui rappresenta così come non si dimenticano le immagini documentaristiche di tutte quelle giovani del movimento Donna Vita Libertà che danno fuoco al loro hijab mostrando all’aperto i loro capelli.
Una cosa è certa: essere donne in Iran è un incubo. Essere donna in questo paese governato e soggiogato dalla Guida suprema e dal Consiglio degli anziani è vivere in un romanzo distopico dove i cartonati di alte autorità del potere religioso o dell’apparato militare con la mano sul cuore (a sottolineare la sottomissione alla fede) che si ergono nel corridoio del tribunale, muovono al riso anche nel pianto per quanto succede.
E la scena dell’inseguimento tra le rovine di un antica città fatta di argilla e mattoni, vicino ad un santuario, nel deserto, sono la bellissima quanto dolorosa metafora della condizione femminile in questo inferno persiano. Cacciatore e prede si inseguono e si nascondono, confondendo talora i ruoli, in questo labirinto di pietra e sabbia, e le prede minacciate, malmenate, apparentemente braccate (e senza velo all’aperto) si riveleranno pronte a seppellire una volta per tutte il regime teocratico e patriarcale che le opprime e le strangola.
Ma numerose sono le scene emblematiche di questo film: da quella dell’interrogatorio del finto “psicologo”, potentissima ed illuminante, allo scontro verbale a tavola tra Rezvan e Iman dove la figlia fronteggia il padre senza paura e gli tiene clamorosamente testa (affronto inconcepibile per un giudice del Tribunale rivoluzionario che, con una sola firma, manda a morte centinaia di giovani e meno giovani); dalla scena dell’estrazione dei pallini di piombo a quella dell’uso della telecamera e della pratica delle confessioni estorte, metodi infine adottati perfino con i propri famigliari, e senza alcuna remora.
O tutte le scene dove sono presenti le mani delle donne; mani che cucinano, che tagliano i ravanelli, che tamponano ferite sanguinanti, che maneggiano con perizia i cellulari, che fanno accuratamente la barba al proprio coniuge sono anche mani che afferrano un piccone per rompere dei lucchetti o che impugnano una pistola per disarmare un potere arcaico che mente ed opprime senza sosta.
È questo un film praticamente di interni (appartamenti, corridoio di tribunale, ristorante, casa natale) – gli esterni, a parte l’altopiano desertico per raggiungere la casa dei nonni, sono quasi esclusivamente nei video documentaristici che circolano sui social e che vengono visti di nascosto da Rezvan e Sana.
Gli interpreti sono tutti eccezionali. Missagh Zareh riesce a rendere con grande efficacia tutta la trasformazione di Iman, da buon padre di famiglia e mite marito, in un violento e paranoico giudice e boia allo stesso tempo; Soheila Golestani è Najmeh ed è bravissima nell’incarnare questa moglie fin troppo devota al marito mentre si rivela una madre ambivalente, che pensa di proteggere le proprie figlie assecondando perfino il delirio del compagno; Mahsa Rostami è la ribelle Rezvan che non ha paura di rispondere né di sfidare il padre e lo fa con un coraggio ed un’intelligenza che toccano profondamente lo spettatore; Setareh Maleki è la sorprendente Sana, anch’ella intelligente, ma soprattutto fine stratega (quando cerca di ricordare con degli amplificatori al padre quello che era da giovane, quando ascoltava canti femminili ormai censurati da decenni, è, a dir poco, geniale) e il suo volto quasi da sfinge è memorabile anche perché è il volto di tutti gli adolescenti che risultano indecifrabili ai propri stessi genitori; Niousha Akhshi incarna la “sfortunata” Sadaf, l’amica di Rezvan ed è impossibile dimenticare lo strazio fatto al suo volto dalle forze dell’ordine; un volto avvolto in un hijab che si trasforma in un triste sudario intriso di sangue.
Il seme del fico sacro è un film fondamentale così come il precedente Il male non esiste perché entrambi raccontano un paese, l’Iran, strangolato da se stesso ossia da una teocrazia repressiva ed omicida.
Ed è un film girato da un regista, Mohammad Rasoulof, che è oggi esule in Germania dopo lunghi anni di condanne e detenzioni per la sua attività di cineasta dove è stato accusato anche «di compromettere la sicurezza del Paese» con le sue azioni. Anche le attrici Mahsa Rostami e Setareh Maleki sono scappate all’estero. Missagh Zareh e Soheila Golestani, invece, sono rimasti in un paese che continua a perseguitare i propri stessi artisti oltre che milioni di cittadini di ogni età e di ogni professione.
Chissà se il clero sciita iraniano accetterebbe mai il suggerimento (e da una donna poi!) di rileggersi l’insegnamento spirituale dei sufi i quali si dedicano ad un approfondimento tutto interiore dei precetti religiosi in modo da preservare l’intera comunità da un irrigidimento della fede che porta solo ad una letteralità sterile e formalistica. I mistici sufi, difatti, ricordano ai re (quindi ai potenti di ogni epoca) che il potere non è che un vento del deserto e ai teologi, religiosi o meno, che la lettera della legge è nulla senza lo Spirito. E Iman, che crede di essere un fedele devoto, e diventa invece un carceriere implacabile perfino con le persone a lui più care, perché, come dice una sera:«Mi sottometto a chi si sottomette a te. Combatto contro chi combatte contro di te. Fino al giorno del giudizio»; ebbene, Iman, forse avrebbe avuto giovamento dalla conoscenza dei sufi per i quali «la luce della conoscenza divina non spegne la luce della pietà».
E cito i sufi perché ad epigrafe del film il regista ha posto dei versi di Jalal al-Din Rumi, il grande poeta e mistico sufi persiano del XIII secolo.
Mentre io, ad epilogo di questa mia recensione, metto i seguenti versi, sempre di Rumi, perché mi sembrano straordinariamente calzanti alla storia raccontata nel film:«Diventa cielo. / Prendi un’ascia e rompi le pareti della tua prigione. / Fuggi».
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
Bellissima la tua recensione. Non ho ancora viasto il film