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Ed io ho visto un uomo...

Maria Antonietta Nardone

(Foto della locandina presa dal web)


IL NIBBIO

 di Alessandro Tonda

 con Claudio Santamaria, Sonia Bergamasco, Anna Ferzetti, Sergio Roman, Davy Eduard King, Biagio Forestieri, Beniamino Marcone, Jerry Mastrodomenico, Massimiliano Rossi, Antonio Zavatteri, Maurizio Tesei, Beatrice De Mei, Alessandro Coccoli, Lorenzo Pozzan, Walter Lippa, Tommaso Ricucci

 

 

Ah, finalmente un film inconsueto nella cinematografia italiana! Teso, autentico, asciutto. Racconta, senza alcuna sbavatura retorica, i 28 giorni di prigionia della giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena, rapita a Bagdad – dove si trovava per realizzare dei reportages per il suo giornale – da un commando armato di iracheni; e i 28 giorni che corrispondono all’ultimo tratto di vita del dirigente del SISMI (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare) Nicola Calipari, incaricato di trattare con i rapitori per la sua liberazione.

   È il 4 febbraio 2005. Nicola Calipari è appena partito in macchina per una vacanza con la sua famiglia: la moglie Rosa ed i figli Silvia e Filippo. Viene richiamato urgentemente al lavoro. Tutti sappiamo come andò a finire eppure lo spettatore rimane incollato alla poltrona a seguire con l’animo sospeso tutte le vicende che precedono l’esito infausto di questa operazione che si concluse il 4 marzo 2005.

   In un continuo andirivieni tra Roma, Bagdad e Dubai la figura di Calipari si delinea nettamente e nella volontà di svolgere il suo lavoro con coscienza, rigore e, soprattutto, intelligenza; pare che in questo paese si sia dimenticata che cosa sia l’intelligenza – tattica, strategica, diplomatica ed operativa – e si preferisca dare spazio a giochi furbetti, ad un opportunismo sleale, ad ambizioni personali capaci di calpestare tutto e tutti, e che portano tutte ad un sicuro fallimento degli obiettivi preposti. La dirittura morale di Calipari, al lavoro ed in famiglia, emerge pienamente e farà comprendere perché il suo soprannome sia “Nibbio”. Il nibbio reale è un rapace che in molte tradizioni europee è simbolo di nobiltà e libertà, di protezione e potere, perché capace di sorvolare i cieli con grazia e forza. Ed è quanto fa il dirigente ed agente segreto Nicola Calipari che, in una missione delicata e complessa, agisce con gentilezza e fermezza.

   I suoi incontri, che siano con il direttore de Il Manifesto o con il manager iracheno sunnita in esilio, con un agente-informatore sul luogo (a Bagdad) come Tiber o con i suoi stessi collaboratori sul campo, sono tutti improntati al rispetto dell’interlocutore e all’importanza della parola data.

   E scatta l’amarezza nel vedere un uomo di questa vaglia essere intralciato da uomini della sua stessa “squadra”, che, pur di emergere e di difendere un’altra linea d’azione, più vicina ai desiderata statunitensi, non esitano a danneggiare l’operato di chi lavora con caparbietà per salvare una vita ed instaurare proficue relazioni diplomatiche con soggetti politici stranieri.

   La sceneggiatura di Sandro Petraglia è incisiva e toglie tutto l’immaginario fosco che si ha sui servizi segreti. Tutti i personaggi, anche i meno rilevanti, non scadono mai in caricature – così come la cinematografia italiana più conformistica ci ha abituato a vedere negli ultimi anni. Eccetto la figura di Berlusconi, che non può che essere la caricatura di se stesso e dei suoi limiti, e che perfino in una situazione drammatica – che diventerà purtroppo tragica – non rinuncia alle sue agghiaccianti battute, come quella diretta a Pier Scolari, il compagno di Giuliana Sgrena, alla notizia della sua liberazione:«Ritorna la moglie, è finita la pacchia».

   Si è – credo volutamente – tralasciato di tratteggiare qualsiasi risvolto storico e politico dell’epoca (che pure hanno contraddistinto tante passate sceneggiature di Petraglia) perché sceneggiatore e regista si sono voluti concentrare sugli aspetti più intimi del protagonista.

   La regia di Alessandro Tonda dà prova di grande sensibilità e, allo stesso tempo, è capace di mantenere la tensione per tutto il film.

   Mi ha colpito molto la descrizione delle promesse e dei desideri che attraversano gli individui sia che si viva in un paese europeo come l’Italia sia che si viva in un paese del Medio Oriente come l’Iraq. Fare immersioni nel mar Rosso è il desiderio di Silvia, la figlia dell’alto funzionario italiano; generatori che possano permettere di irrigare i propri campi è il desiderio di un agricoltore iracheno. Così come mi ha colpito il ritratto non stereotipato dei musulmani, con la priorità che i credenti (o fedeli) danno alla preghiera in qualsiasi contesto siano. Mentre gli agenti della CIA ripropongono la solita supponenza degli statunitensi e la loro sempre incredibile ignoranza: ignoranza delle reali poste in gioco e del modo migliore di “giocarsele” – per non parlare delle tradizioni e della cultura dei paesi via via invasi ed occupati.

   Vediamo i bar di Roma sotto cieli di un azzurro pieno e i cieli giallognoli pieni della sabbia del deserto di Bagdad; vediamo le terrazze dei più lussuosi hotel di Dubai, con i loro interni così diversi dagli ambienti super protetti dei servizi segreti italiani, Forte Braschi in testa; vediamo la stanza di prigionia di Giuliana Sgrena, la casa della famiglia Calipari, la redazione de Il Manifesto così come i cortili con giardino delle case di Bagdad o i vicoli e le strade più diroccate della capitale irachena, e capiamo che i sentimenti che muovono gli individui sono gli stessi a qualsiasi latitudine si manifestino.

   Calipari, grazie alla sua tenace mediazione, riesce a far liberare un’atterrita Giuliana Sgrena. Mentre viaggia su una Toyota Corolla, di notte, a poche centinaia di metri dall’aeroporto di Bagdad, sulla cosiddetta Route Irish, viene ucciso da mitragliate sparate da un posto di blocco presidiato da soldati statunitensi. Ucciso dall’esercito alleato. Ucciso dal “fuoco amico” per un “tragico incidente”. L’autista e la giornalista rimangono feriti.

   È una conclusione che fa veramente rabbia. Così come fa rabbia che non ci sia alcun responsabile della morte di Nicola Calipari. Ma, nel paese in cui si è potuto verificare la strage del Cermis, nel 1998, in cui morirono venti persone che erano nella cabina di una funivia il cui cavo fu tranciato da un aereo statunitense guidato da un pilota che sorvolava quell’area sotto quota per puro divertimento, senza che i responsabili abbiano mai risposto giudizialmente di quanto provocato, ciò, non mi meraviglia. No, non mi meraviglia, ma mi indigna. E mi sdegna.

   Gli interpreti sono tutti bravissimi: dal fresco Tommaso Ricucci che fa Filippo, il figlio dodicenne di Calipari, a Beatrice De Mei, che impersona Silvia, la figlia diciottenne acuta e ribelle, da Anna Ferzetti (la moglie Rosa) che con poche, efficacissime espressioni rende tutta una relazione fatta di amore, complicità, ironia e comprensione reciproca col marito, a Sergio Roman, che fa un sofferto Gabriele Polo, il direttore de Il Manifesto, da Alessandro Coccoli che fa un attonito Pier Scolari, a Sonia Bergamasco, una spaventata e quasi annichilita Giuliana Sgrena, perché convinta che sarebbe stata uccisa dai suoi rapitori dacché li aveva visti in faccia; da Hossein Taheri, che incarna splendidamente l’enigmatico manager sunnita dal nome impronunciabile per un italiano ad un valente Massimiliano Rossi che è Tiber, l’agente-informatore dei servizi segreti italiani a Bagdad, da Jerry Mastrodomenico, che fa Giulio, l’infido funzionario del SISMI che intralcia l’operato di Calipari, ad Antonio Zavatteri, che dà corpo allo sfingeo Nicolò Pollari, direttore del SISMI all’epoca dei fatti, per arrivare ad un intenso e toccante Claudio Santamaria. L’attore, che ha perso oltre dieci chili ed ha applicato lenti a contatto scure per restituirci un Nicola Calipari più simile fisicamente all’originale, conservando tuttavia tutta la determinazione e l’autorevolezza dell’autentico funzionario italiano, mi ha impressionato per finezza ed asciuttezza interpretativa, lavorando ottimamente sulla resa della personalità di Calipari, scartando, giustamente, qualsiasi superficiale o gigionesca imitazione da show televisivo. Offrendoci così, oltre alla rettitudine del personaggio interpretato, la responsabilità e il senso di responsabilità che quest’uomo aveva nei confronti del proprio paese e delle persone coinvolte. Un senso di responsabilità così spiccato da non esitare un attimo a fare da scudo, col suo corpo, al corpo di Giuliana Sgrena, senza che quest’atto fosse inteso come un atto di eroismo (che poi, oggettivamente, lo è stato), bensì, semplicemente come un atto coerente con tutto il suo alto sistema di valori.

   Non c’è cesura, difatti, tra il Calipari professionale e il Calipari famigliare. I valori dell’uomo sono e restano gli stessi. E questo film,  Il nibbio, ha il merito e il pregio di mostrarli in un una maniera limpida e senza fronzoli.

 

  

 


Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

 

 

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