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  • Maria Antonietta Nardone

«Piacere, Anna Segre, ebrea, lesbica»


100 PUNTI DI LESBICITÀ (SECONDO ME)

100 PUNTI DI EBRAICITÀ (SECONDO ME)

di Anna Segre

Elliot Edizioni – Roma, 2018


«Piacere, Anna Segre, ebrea, lesbica», così si presentava la scrittrice ai suoi nuovi interlocutori per testarne la reazione. Una provocazione, certo. Anche un po’ aggressiva, certo. Ma tremendamente toccante per il coraggio di esporsi così apertamente in un’epoca di sgorghi reazionari, antisemiti e liberticidi. Tuttavia, meglio argomentare con più agio queste condizioni, la lesbicità e l’ebraicità, con la scrittura e, soprattutto, con la narrazione. Ecco così nascere questi due volumi smilzi, 100 punti di lesbicità (secondo me) e 100 punti di ebraicità (secondo me), che sono un’autobiografia per capitoletti (o punti). E che capitoletti! Non è un’autobiografia che ha un inizio, uno sviluppo ed una fine in una sequenza temporale di passato, presente e futuro. No. È un’autobiografia che procede per associazioni o urgenze del pensiero. È un mosaico che si compone a poco a poco e che farà emergere il suo disegno solo quando si sarà posto l’ultimo tassello (che non è detto si sia concluso con questi due libri, anzi).

Nel primo volume è messa a fuoco la propria lesbicità, da una condizione di nascondimento e paura fino ad un’affermazione orgogliosa, caparbiamente orgogliosa (ho scritto affermazione, non accettazione). E così tutti gli incontri, i sentimenti, i trasporti amorosi, la sessualità finalmente sperimentata divengono imprescindibile via di conoscenza e di autoconoscenza. Come ogni relazione autentica che abbia un minimo di presa, lunga o corta che sia.

Dopo aver vissuto i propri sentimenti quasi come una talpa, erompe il desiderio di essere come si è senza celarsi, erompe l’orgoglio, erompe la sfrontatezza; ma pur sempre la gentile sfrontatezza di una timida. Dalla solitudine e dall’isolamento si passa al convivio di amiche che si raccontano con humor e ferocia le proprie disavventure sentimentali – e ne prevedono di peggiori, solo per tirarsi su.

E, attenzione, se una omosessualità vissuta finalmente con fierezza è il tema centrale (ma non il tema portante che è invece quello dell’individuazione), i temi toccati e trattati sono tantissimi. Cosa che sbalordisce, vista l’esile forma dei due libri. Ma non mi sorprende del tutto perché la prosa di Anna Segre restringe la narrazione in sintesi aforistiche fulminanti. Qualche esempio:«La mia cavalleria tragica conosce solo l’epica»; «eravamo oltre il limite dell’autoironia, in zona autoferocia»; «qualcuno dice che Dio è amore, io dico che l’amore chiede fede, non fiducia. Io dico che l’amore è Dio»; «che crinale inammissibile quello tra irritazione e citazione, quanto sono forti le madeleine della colpa».

Volumi ricchissimi di temi e riflessioni, scrivevo. Interrogativi ed obiezioni. Si pensi alla finezza, non solo etimologica, nell’analisi della parola omofobia (che è piuttosto «rabbia, disprezzo, disgusto, rifiuto»); quindi, sarebbe più consono usare la parola omoclastia. Proseguendo su questa strada, potrei azzardare parole come omohate e omohaters. Oppure, al posto di omosessualità, dire omoamore. Ma omoamore suona piuttosto cacofonico.

C’è l’incidenza della rabbia nella sua esistenza e nel suo percorso di individuazione e liberazione più ancora che dalle paure da un senso di radicatissima inadeguatezza. Così interrogandosi:«Senza la rabbia mi sarei afflosciata come un sacco vuoto?».

C’è l’amarezza per un amico d’infanzia che discrimina e ferisce. C’è la lucidità:«Non è il sesso tra gli omosessuali che dà fastidio. È la relazione umana, la somiglianza dell’anima, la coscienza dell’identico sentimento, tutto questo è inaccettabile, osceno». C'è la delicatezza d'animo, quando, per non ferire, si spegne l'intelligenza, si chiude a chiave nella mente quella battuta che è già lì, sulla punta della lingua, pronta a partire. È questo anche il sublime suggerimento di Nietzsche:«Risparmiare vergogna».

C’è il suo stesso supervisore a stimolarla, quando dovrà rivolgersi ad una donna che sta morendo e che ha paura di morire, dicendole così:«Guarda per lei l’orizzonte che non vedi». E questo non vale solo per la donna in questione ma anche per qualsiasi collettività chiusa in una visione preconcetta dell’esistenza e che ne disconosce le numerosissime modalità. Guarda l’orizzonte che non vedi. Già; Segre non solo vede orizzonti che all’inizio non si vedono o che altri non vedono, ma è capace di guardare e vedere, contemporaneamente, in più direzioni. È come se avesse lo sguardo prismatico della mosca. Uno sguardo capace di vedere da più prospettive nello stesso istante. E non è dato a tutti lo sguardo prismatico della mosca!

C’è la nuda purezza di questa descrizione del dolore:«Di notte, nel culmine del buio, nelle ore più lontane dall’alba, insonne, guardavo Lungotevere di Pietra Papa vuoto, illuminato per nessuno, le case spente di sonno, e mi dannavo: un dolore puro senza parole».

Bellissima, poi, la figura dell’Oniromante e dei suoi pensieri che le sopravvivono. I pensieri sopravvissuti; ed Anna Segre conosce molto bene il vulnus e i pensieri dei sopravvissuti alla Shoah, ad esempio. Non solo perché si è occupata in un paio di pubblicazioni di raccoglierne le testimonianze o di curare il prodigioso diario ritrovato di Fatina Sed, ma perché anche lei è una sopravvissuta. Una sopravvissuta al micidiale comportamento cancellante del padre, una sopravvissuta al suo tremendo senso di inadeguatezza, una sopravvissuta alla sua ombrosissima disistima. Una disistima talmente potente da farle provare paura di disturbare, in questa vita, da farle desiderare uno spicchietto di terra in cui poter respirare e passare inosservata.

Ed io mi sono immaginata questo padre come una grande, incombente gomma che cancella sistematicamente i segni fatti sulla carta dalla figlia; segni che in realtà sono e rappresentano la sua stessa esistenza. E la figlia, ad ogni cancellazione, superando l’angoscia e lo sgomento di quel terribile azzeramento, che riprende a fare i suoi segni su quella stessa carta con rinnovata, imperterrita tenacia.

E concordo con l'Oniromante: c’è spiritualità in lei. Una spiritualità senza teismo e senza legge; forse la spiritualità più pura (e più ardua!).

Si passa così dall’iniziale «chi sono io?» al «chi sei tu?»; praticamente, dal monologo al dialogo. Dall’isolamento interiore alla relazione. Per amare, per conoscersi, per pensare, per argomentare ed anche per lottare. Perché è nel dialogo che si scopre l’altro da sé (e l’altro da sé è anche un aspetto di sé non conosciuto e riconosciuto).

È originalissima e palpitante, nonostante il tono che di solito si assume quando si ragiona e si argomenta. E poi c’è l’impulso a raccontare le donne amate. E perché mai dovrebbe essere percepito diversamente dall’impulso di una scrittrice che racconti invece gli uomini amati?

E in fondo che cosa chiede se non di andare a teatro con la sua amata e ritornare a casa insieme, sottobraccio una all’altra:«Ciò che per la maggioranza è quotidiano, scontato – siamo nel campo della banalità – per un omosessuale può essere il sogno nel cassetto».

Questo libro riduce la poca rappresentazione e la scarsa letteratura che c’è dell’universo lesbico e lo fa con un’originalità ed una lucidità entrambe cristalline.

Lo fa con una scrittura tagliente (ma non il tono, mai); una scrittura che incide in profondità, se necessario, oppure scarifica e cura. Bisturi o scimitarra, usati però con la medesima precisione chirurgica. Ed io me la vedo davanti agli occhi, Anna Segre, con la cotta di maglia di un cavaliere della Tavola Rotonda o il sarong di un pirata malese partire lancia in resta in difesa dei diritti di qualsiasi individuo o gruppo discriminato per il proprio orientamento affettivo e/o sessuale.

Inoltre, come scrittrice, porta il lettore a colmare lo scarto che c’è tra le sue considerazioni e l’aforisma finale, che racchiude il succo distillato di tutto il suo ragionamento, facendolo lavorare – facendolo pensare in proprio. Risultato grandioso. I suoi aforismi, infine, sono brucianti e caustici come quelli di Karl Kraus. Con una differenza sostanziale: mentre Kraus investiva con la sua causticità tutto e tutti, Segre la riserva soprattutto a se stessa. La sua è autocausticità; imbelle, incandescente autocausticità.

*

Nel secondo volumetto (l’ordine è mio ed è dato dalla mia sequenza di lettura), 100 punti di ebraicità (secondo me) la biografia di sé si focalizza sull’ebraicità. Un approccio non ortodosso, il suo, ma pur sempre intriso di ebraicità, ebraismo e spiritualità (il tipo di spiritualità di cui ho scritto sopra). Ma non solo. Vi è l’interrogazione sul narrare e sulle ragioni del narrare. Si possono leggere frasi come questa:«Chi sa raccontare vince». Oppure sui libri e la loro funzione quasi fisiologica di salvezza:«Perché i libri mi abitano e io li abito». Così come anche il tema della salvezza tout court (tema schiacciantemente ebraico, direi). L’io che racconta si sente e si percepisce come una “salvata”. Da professoresse, trainers, Shlichim, vicini di casa, il portiere, i suoi stessi pazienti – l’autrice è medico e psicoterapeuta, tanto per capirci. L’episodio del bob e del dirupo a me non fa altro che confermare il meraviglioso verso di Hölderin:«Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva». E di ciò credo che Anna Segre ne abbia un’esperienza profonda e consapevole.

Questo secondo libro è più complesso e meno volante di quello sulla lesbicità, ma non meno coinvolgente. L’autrice si sofferma sul suo bisogno di interpretazione (tutto è interpretabile e può prendere innumerevoli direzioni), sull’importanza della critica e dell’obiezione così come anche sulla vitalità della dialettica. Quando si riconosce in un pensiero libero, non obbediente a chicchessia, e dove anche la spiritualità è libera o non è (non esiste), a me è parso di rintracciare il Dio inconoscibile di Spinoza, il quale scardina il Dio persona per aprire ad una Natura naturans, al «Dio è natura che si fa natura». L’uomo non solo non potrà mai penetrare ma non potrà mai comprendere od afferrare quel «mirabile ordinamento del tutto». Solo con l’intuizione si può arrivare all’apice del movimento conoscitivo; solo con l’intuizione si può arrivare a Dio. Prima ancora della pubblicazione di alcun testo, che sia il Tractatus theologico-politicus (pubblicato anonimo, ma negli ambienti intellettuali dell’epoca, nel 1670, si sapeva benissimo che l’autore fosse lui) o l’Ethica che fu pubblicata addirittura postuma, il ventiquattrenne Spinoza fu bandito dalla sua stessa comunità sefardita di Amsterdam con una violentissima scomunica (cherem), mai più revocata, piena di divieti e di maledizioni.

Perciò non mi stupisco affatto se l’autrice si trova a scrivere nel 2018:«La comunità è piccola. Feroce come ogni piccolo gruppo». Del resto, gli spiriti liberi sono sempre stati invisi ed ostacolati dall’ordine e dal sapere costituito.

L’adesione letterale ed acritica ad una qualsiasi legge, religione o ideologia porta alla rigidità, all’illibertà, all’asfissia della vita e del pensiero (Hillman docet). Un’adesione estrema sfocia nei fanatismi più perniciosi e pericolosi. Mentre la recita dell’adesione ad una legge, ad una religione o ad un’ideologia può avere risvolti comici in chi vi assiste pur partecipandovi. Tutto il capitoletto del Kippur (il punto 57 di 100) ne è una descrizione esemplare.

Non manca la riflessione sulla natura governativa dei Dieci comandamenti. Governativa e sommamente prescrittiva, aggiungerei. Come ad esempio il comandamento di onorare il padre e la madre («ed anche il loro bastone» come cantava De Andrè, un bastone che può essere concreto o psicologico). Questo Decalogo così ingiuntivo riflette il tempo e le condizioni in cui fu concepito. Piaccia o non piaccia sentirselo dire, antropologicamente, però, è così.

D'altronde, anche nei Vangeli sinottici vi sono prescrizioni ed ordini che risultano psicologicamente assurdi. Come quella di amare Dio («ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente»). Non si può amare a comando. Non si può ordinare di amare. Come se qualcuno ti dicesse:«Forza, amami, dài, che aspetti?». O si ama o non si ama. Spontaneamente. L’amore nasce o non nasce, comunque, sempre spontaneamente. E poi che Dio è quello che ordina all’uomo di amarlo (e questo anche qualora fosse solo un’esortazione e non un comando)? Proprio sotto un profilo filosofico e teologico: ma che razza di Dio è?

Preziosissimo poi il “glossario approssimativo” posto alla fine, che è di aiuto sia a chi sa qualcosa di ebraicità e di ebraismo sia a chi ne è completamente digiuno.

Insomma, questo dittico in 200 punti a me pare una recherche stringata all’osso, depurata quasi totalmente di ogni figuratività; una recherche essenziale capace di tracciare il percorso di un corpo, di un’anima e di un’intelligenza smaccatamente fuori dall’ordinario; insomma, il percorso di un essere straordinario che per nostra fortuna scrive dando così testimonianza di una tanto faticosa quanto fascinosa individuazione.



Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati




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