top of page
  • Maria Antonietta Nardone

La corsa di Cyril


(Foto della locandina presa dal web)


IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA - (2011)

di Jean-Pierre e Luc Dardenne

con Cécile de France, Thomas Doret, Jérémie Renier

Rimarrà a lungo, nella mia mente, il volto e il corpo del piccolo Cyril e le sue libere e rabbiose corse in bicicletta. Sì, veramente una figura cinematografica che sarà memorabile. Per la sua ostinata tenacia, per i sentimenti forti, per un dolore fondo che stringe l’animo di un ragazzino, appena undicenne, che ha già preso una bella bordata di sberle dalla vita.

Lo vediamo all’interno di un istituto di accoglienza per l’infanzia dal quale cerca ripetutamente di scappare alla ricerca di un padre tanto amato quanto irresponsabile ed affettivamente aridissimo. Vediamo il viso chiaro, ma chiuso in un dolore astioso e dispettoso, i suoi capelli biondo-rossi, la sua esile ma resistentissima figura muoversi di corsa e/o in bicicletta per quelle strade che lo separano dal padre. Una distanza che Cyril, con l’aiuto di Samantha, una donna a cui si era aggrappato per caso nella sala d’attesa di uno studio medico, riesce ad azzerare per scoprire che l’amato padre non vuole proprio saperne niente di lui, il figlio.

E torce lo stomaco la reazione autolesionistica del ragazzino, quando si graffia il volto e sbatte volontariamente la testa contro lo sportello della macchina, per la sofferta consapevolezza di essere un figlio rifiutato dal padre.

Diventa facile preda di un piccolo boss di quartiere che lo porterà ad effettuare una rapina. Facile preda, ma non stupido. Saprà con lucidità riconoscere l’errore ed individuare chi vuole veramente il suo bene.

E stringe il cuore vedere infine la sua reazione, quando, inseguito, preso a sassate da un ragazzo che aveva aggredito dopo aver tramortito il padre, per una rapina, arrampicatosi su un albero, cade perché colpito da un sasso. Un povero fagottino che precipita al suolo, rimanendo rannicchiato tra l’erba e la terra di un bosco: non si muove. Sembra morto. Quando, a fatica, tutto ammaccato e stordito, si rialza, va via senza dire nulla all’aggressore e al padre dell’aggressore (bugiardo e opportunista), rifiutandosi di far chiamare un’ambulanza (tante volte avesse una commozione cerebrale), solleva la bicicletta, prende il sacco di carbonella che era andato a comprare e via di nuovo in sella alla sua bicicletta. Stringe il cuore la sua reazione di cucciolo aggredito che non protesta per una violenza subita ingiustamente. Davvero, stringe il cuore.

Bello, brusco, diretto, senza smancerie, il rapporto tra Cyril e Samantha, la donna che lo prende in affidamento, che lotta per lui come una leonessa per i suoi cuccioli. Eppure la forza di un accudimento sincero e forte passa e Cyril, pur con le sue intemperanze e ribellioni, lo sente e lo riconosce. Quella complicità finale, tra i due, sotto l’albero, mentre mangiano un panino è la conquista di una sudatissima armonia.

L’aspetto molto intrigante del film è nella motivazione di Samantha, una donna che ha un compagno, un lavoro (è una parrucchiera), e che non sa nemmeno lei perché vuole dare una mano a questo ragazzino, all’inizio assai difficile; l’aspetto intrigante è che Samantha non ha un sentimento materno insoddisfatto da colmare; il suo è un atto di generosità, generato da un amore disinteressato. Siamo ancora capaci, noi europei, di compiere simili azioni senza calcoli personali e, soprattutto, senza suscitare sospetti altrui?

Indimenticabili le corse a piedi del piccolo Cyril, con la sua maglietta rossa, per le strade, fra le macchine, di giorno, di notte; indimenticabili anche le sue corse in bicicletta, così sproporzionate rispetto alla potenza e alla solidità delle macchine, degli autobus, delle motociclette. Un confronto impari quello tra il mondo degli adulti e il mondo di quei ragazzini che nascono socialmente estremamente svantaggiati. Quanta fatica, quanto fiato, quanta forza nelle gambe! E la tristezza per quanto ha subito Cyril, e i tanti Cyril che si muovono, di corsa e in bicicletta, per le strade di questa Europa, fa male.

Tuttavia c’è speranza per questo ragazzo che così piccolo ha già conosciuto i dolori e le violenze più tremende; c’è speranza (paesaggi luminosi, ariosissimi, ripresi nei dintorni di Liegi) e questa speranza, questo sbocco ottimistico è una novità nella filmografia dei fratelli Dardenne, di cui, a memoria, non ricordo alcun lieto fine. E basti pensare a Rosetta, L’enfant e Il matrimonio di Lorna solo per citare i primi tre che mi sono venuti in mente.

Un film prezioso che si è avvalso della luminosa presenza dell’attrice belga Cécile de France (già ammirata in Hereafter di Clint Eastwood), asciutta, vera, tenacissima; del tormentato padre interpretato da Jérémie Renier (un veterano dei film dei fratelli belgi) e del nervoso, secco Thomas Doret che interpreta magnificamente la figura di un piccolo, ma ostinatissimo, sopravvissuto ai dolori precocissimi che hanno attraversato la sua esistenza.

Forse non è il più perfetto tra i film dei Dardenne; c’è difatti qualche sbavatura e qualche approssimazione in alcune battute, in certi dialoghi di una sceneggiatura firmata dagli stessi registi; sviste impensabili nelle pellicole precedenti; sviste che non hanno impedito loro di aggiudicarsi Il Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2011.


(da Fango e luce, Edizioni del Faro - 2014)



Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati




bottom of page