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  • Maria Antonietta Nardone

Vienna, cara Vienna


Fregio di Beethoven di Gustav Klimt (particolare)




Autografo alla Mozarthaus




I veggenti II (morte e uomo) di Egon Schiele




Atrio della casa di Freud




Anticamera della casa di Freud




Freud nel suo studio (foto presa dal web)




Prima edizione de L'uomo senza qualità di Robert Musil




Prima ancora di partire per Vienna, ero molto emozionata al pensiero di passeggiare per una città dove avevano vissuto Musil, Kraus, Broch, Werfel, Roth, von Hoffmansthal, Canetti, Trakl, per non parlare poi dei pittori (Schiele, Klimt, Kokoschka ecc.) o dei musicisti (Mozart, Mahler, Schönberg, Berg).

Al mio ritorno sono ancora stordita dalla concentrazione di tanta bellezza, arte e pensiero prodotti in periodi diversi, ma soprattutto nel primo Novecento. Non che non lo sapessi, ma vedere la moltitudine di personalità artistiche ed intellettuali che hanno operato in un periodo circoscritto di tempo e di spazio – Vienna non è grandissima – mi ha davvero colpito. Al Leopold Museum, poi, c’è una lunga ed alta parete che raggruppa anche tutte queste personalità appartenenti alla comunità ebraica; la dimensione quantitativa e qualitativa della presenza ebraica, vista così, nero su bianco delle foto, è impressionante.

Impressionante e culturalmente globale perché ha interessato letteratura, pittura, musica, teatro, poesia, filosofia, psicologia, fisica, architettura, design, moda ecc.

Questa immersione nella grande vivacità artistica ed intellettuale degli inizi del Novecento con questa commistione di arte, scienza ed architettura, mi ha portato benessere. Sì, un profondo – e spero duraturo – benessere nonostante gli scrittori, i drammaturghi e i pittori dell’epoca abbiano espresso nelle loro opere tutta la tragicità dell’esistenza umana.

Mi ha portato benessere anche perché ha posto di nuovo davanti ai miei occhi che cosa sia un artista, che cosa sia uno scrittore; la loro energia, la loro dedizione, quell’incapacità di fuggire dalla propria vocazione che ha caratterizzato le loro esistenze. Ecco, sì, la parola giusta è proprio questa: vocazione. Ed alla propria arte si dà tutto, tutto quello si ha – ed anche quello che non si ha perché non si crede di avere.

Tante, troppe le emozioni da descrivere. Ne citerò solo quattro, quelle che mi hanno toccato più nel profondo. La prima, nella casa di Mozart, nel vedere lo spartito del Requiem dove c’è il Dies ira, dies illa Solvet saeclum in favilla […], improvvisamente la musica è partita da sola nella mia testa ed ha continuato fino a Quantus tremor est futurus […] cuncta stricte discussurus. È come se la musica si fosse alzata da quella carta manoscritta e si fosse accasata nella mia testa esplodendo in tutta la sua inarrivabile e potente e sublime bellezza.

La seconda, nella casa di Freud, e precisamente nel suo studio. I mobili, eccetto qualcuno nell’atrio o nell’anticamera, non ci sono più, ma le fotografie molto dettagliate permettono di “vedere” come fossero ammobiliate tutte le stanze. Nello studio, Freud, seduto davanti alla sua scrivania, aveva alla sua sinistra un’ampia finestra che dava sul cortile. La scrivania non c’è più, ma nel punto della sua sedia, io mi sono abbassata, ed ho guardato fuori da quella finestra. Quanti mondi ha visto Freud guardando anche fuori da quella finestra! Dal suo mobilio scuro alla luce che entrava da quella finestra ho immaginato che Freud “vedesse” come in uno schermo tutti i meccanismi dell’Es, dell’Io e del Super-io. Un film lunghissimo che solo lui, in forma scientifica, “vide” e trasmise.

Toccanti, poi, i filmini famigliari in bianco e nero e senza sonoro, raccontati dalla figlia Anna Freud, già anziana, a Londra. Vedere come quel vecchietto magro e fragile fosse accudito dai suoi famigliari e da Paula, la governante, mi ha commosso.

La terza, al Leopold Museum, sotto la lunga ed alta parete con le personalità ebraiche, ci sono lunghe bacheche con lettere autografe, fotografie e prime edizioni di libri che hanno fatto la storia della letteratura e del teatro. La prima edizione de L’uomo senza qualità di Musil, la prima edizione de Il processo di Kafka, la prima edizione de Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus e la prima edizione de La ronde di Schnitzler. Riconosco che mi sono venute le lacrime agli occhi – non c’è bisogno di dire il perché.

La quarta, sempre al Leopold Museum. L’esistenza di Egon Schiele è raccontata con fotografie, didascalie e, naturalmente, con i suoi quadri. Su tutti, mi colpisce il quadro I veggenti II (morte e uomo) del 1911 dove la morte abbraccia un uomo da dietro. Le mani dell’uomo sono le inconfondibili mani del pittore dalle dita lunghe-lunghe. Tremenda premonizione – Schiele muore a ventotto anni per febbre spagnola nel 1918. L’immagine ha una malia sinistra. Non riesco a staccarmene. Proseguo nel mio percorso del museo. In una bacheca c’è una foto che ritrae uno Schiele con tanti capelli neri tutti ritti in testa, lo riconosco anche da lontano. Accanto c’è la foto di un uomo scavato dalla malattia, con la barba incolta ed i capelli rasati che giace inerme in un letto. Sembra un uomo di mezza età. Invece è Schiele, il ventottenne Schiele nel suo letto di morte. Il pittore, con i suoi quadri, ha espresso quello che fa la vita all’uomo. Quanto è brutta. Quanto la sua durezza lo deformi. Ebbene, guardando quella foto, ho pensato a quanto la morte fa al corpo dell’uomo. Quanto è brutta. Quanto la sua durezza e rigidità lo deformi.

Non voglio però chiudere questo mio scritto con quest’ultima, dura emozione – che mi ha comunque arricchito. Della collezione Batliner all’Albertina Museum, ad esempio, si potrebbe parlare per giorni e giorni. Monet to Picasso è il titolo della collezione permanente e del catalogo che ho comprato. Ma la ricchezza di quadri e pittori, anche i meno noti ma non meno importanti, è impressionante.

Vienna è stata anche gustare la sachertorte allo storico Cafè Sacher o lo schnitzel (la cotoletta larga trenta centimetri) al Figlmüller, la patria dello schnitzel, o il wurstel wiener davanti al Rathaus; è stata l’apfelstrudel o il mastodontico Kaiserschmarrn, una frittata dolce che ce la spartivamo in tre tanto era grande. Vienna è stata i tanti chilometri macinati per vedere tutti i possibili punti o luoghi di interesse dal Prater al Danubio, dal mitico Burgteather dove sono passati tutti i più grandi drammaturghi, registi ed attori germanofoni all’Hofburg, dalla Karlskirkhe al Palazzo della Secessione dove si ammira lo strepitoso fregio di Beethoven fatto da Klimt, dall’imponente ultragotico Stephansdom alla casa razionalista di Wittgenstein, che ora è la sede dell’ambasciata bulgara.

Insomma una tale ricchezza di stimoli da uscirne stordita. Piacevolmente stordita. Stordita ed appagata. Come ne sono uscita io.







Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati




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