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Le corse di Floria

  • Immagine del redattore: Maria Antonietta Nardone
    Maria Antonietta Nardone
  • 27 ago
  • Tempo di lettura: 3 min
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(Foto della locandina presa dal web)


L’ULTIMO TURNO

 di Petra Volpe

con Leonie Benesch, Sonia Rjesen, Jasmin, Mattei, Alireza Bayram, Lale Yavaş, Ali Kandaş, Selma Jamal Aldin

 

 

L’ultimo turno, diretto da Petra Volpe, è un film intenso e coinvolgente. Floria Lind, una giovane infermiera in un ospedale di un cantone svizzero, attacca il suo turno di notte; in reparto ci sono solo due infermiere (tra cui lei) ed una tirocinante affidata alla sua direzione. Riuscirà Floria ad arrivare a fine turno, passando da tutti i pazienti del reparto con professionalità e gentilezza? Lo scopriremo. Lo scopriremo restando avvinti da un andamento quasi da thriller che mantiene la tensione per tutta la durata del film.

   Ma quello che avvince di più sono le relazioni; le relazioni con i pazienti, alcuni molto gravi, con le colleghe, con i medici, con i famigliari dei pazienti. È qui che il film palpita ed esprime tutto il suo interesse per l’autenticità di queste relazioni, interrogandosi su quei sentimenti di empatia e compassione che non possono mancare in quei luoghi dove la fragilità umana si manifesta in tutta la sua dolente e dolorosa pienezza. È qui che si rivelano anche le immancabili gerarchie che vigono all’interno di un ospedale; gerarchie che non possono essere scalzate nemmeno da uno dei più nobili tra i moti umani, ossia la pìetas (e la scena con la dottoressa Strobel, sulla rampa delle scale, è paradigmatica).

   Floria ha acquistato in saldo ottime scarpe da ginnastica perché la vita in corsia di un’infermiera, oltre alla tempestività ed alle capacità, è anche una continua e lunga corsa tra le camere dei ricoverati, gli ascensori, le sale operatorie; anzi, è mantenere le proprie indubbie capacità, la propria lucidità e la propria concentrazione in questa corsa alla cura senza farsi fagocitare in quell’ingranaggio “meccanico” che è diventato questo lavoro quando si è sotto organico.

   Se alcuni dialoghi ed interrelazioni con i pazienti sono commoventi (il canto con la signora Kuhn e il rapporto con il ricco manager ricoverato in regime privato), altri sono più aspri e duri. La sorridente cura dei pazienti è da taluni apprezzata (la madre sfinita dal cancro o l’anziano diabetico che aspetta invano da giorni che gli sia comunicata la sua diagnosi), da altri no.

   Riuscirà Floria a svolgere il suo lavoro incessante e quasi senza respiro e a finire il suo turno senza errori e complicazioni?

   Tante le scene che si ricorderanno che si svolgono perlopiù tra corridoi bianchi, camere anonime, freddi ascensori, cassetti dei farmaci da aprire con una chiave (la “chiave dei veleni”) tenuta al collo, spie arancioni che si accendono continuamente ecc. Bellissima anche la scena iniziale delle divise degli infermieri e quella finale che si abbandona ad un’immagine sognante e poetica, una cifra del tutto assente nell’intera pellicola.

   Asciutta e precisa la sceneggiatura firmata dalla stessa regista, Petra Volpe. Intensa ed antispettacolare la sua regia che segue la valorosa Floria con la macchina da presa a mano, incalzandola alle spalle, alla maniera dei fratelli Dardenne, cogliendo così tutta la durezza del suo mestiere. Il titolo originale del film, difatti, è Heldin (Eroina).  

   Azzeccatissimi i volti e i corpi di tutti gli interpreti colti nel momento della paura e del dolore o anche, in alcuni casi, dell’egoismo. Bellissima l’interpretazione di Floria, incarnata da una straordinaria Leonie Benesch, che presta la sua figura snella e scattante, di lattea carnagione e con capelli biondi raccolti, una figura quasi angelica, ad un personaggio umanissimo, con una recitazione, tutta in sottrazione, capace di trasmettere con il solo sguardo tutta una gamma di sentimenti che vanno dalla disponibilità alla rabbia, dalla gentilezza alla rivendicazione, dalla sensibilità ad una stanchezza frustrata ed esausta. Indimenticabili, per me, alcune sue espressioni di sfinito smarrimento.

   Un film che getta uno sguardo aperto su un mondo in cui si manifestano i sentimenti primari di un individuo (il dolore, la sofferenza la paura della morte, la morte) dalla parte di chi patisce e l’ascolto, la dedizione, la gentilezza, la compassione, dall’altra parte, quella di chi cura e si prende cura, senza fare sociologia spicciola né cedere ad un’inverosimile spettacolarizzazione, tipica delle serie televisive sui medical drama. E lo fa illuminando non solo un sistema sanitario burocratizzato che richiede, ai suoi operatori, un’efficienza disumanizzante, ma soprattutto, rischiarando la difficoltà a contenere le proprie emozioni davanti alla malattia e alla morte dei pazienti nonché la profonda solitudine in cui si trovano ad operare i lavoratori indispensabili della cura e dell’assistenza.

   Sullo schermo nero, alla fine, si leggono dati e statistiche. Tra cui questa:«L’OMS stima che entro il 2030 mancheranno circa 13 milioni di infermieri nel mondo».

   Chissà se chi ha il dovere e il potere di intervenire e ridurre questo dato lo farà. Ne va  non solo della nostra sopravvivenza, ma anche e soprattutto della nostra vita tanto fisica quanto etica.

 

 


Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

 

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