Le smisurate ambizioni di una parrucchiera imperiale
LA PARRUCCHIERA DELL'IMPERATRICE ossia LA VERA STORIA DELLA PRINCIPESSA SISSI - di Franca De Angelis
regia di Anna Cianca con Tiziana Sensi
Teatro Tor di Nona - Roma È uno spettacolo, questo, che inchioda lo spettatore alla sedia, lo avvince con un intensissimo monologo di un’ora e mezza per lasciarlo, infine, pieno di domande, dubbi, riflessioni e considerazioni. È il ritratto di due donne (impersonate peraltro da un’unica attrice): Fanny Angerer, settima figlia di un’umile famiglia della periferia viennese che diventa parrucchiera imperiale, e la duchessa Elisabeth di Baviera che diventa, sposando Franz Joseph, imperatrice d’Austria, regina apostolica d’Ungheria, regina di Croazia e di Boemia, universalmente conosciuta come la principessa Sissi.
Due donne, l’imperatrice e la sua parrucchiera, lontanissime per censo e cultura, vivono accanto per oltre trent’anni senza avere, in pratica, nessuna relazione autentica l’una con l’altra (eccetto il dialogo finale), chiuse e perse, ciascuna, in aspirazioni irraggiungibili: Fanny che vorrebbe «essere qualcuno», «essere immortale e ricordata da tutti» proprio come l’imperatrice, elegante, snella, di leggendaria bellezza, a cui cerca fortissimamente di somigliare, avendola eletta a modello ideale; mentre Sissi, che vorrebbe essere una donna anonima, ma libera di entrare in una pasticceria della città o di camminare indisturbata tra la folla, è insofferente alla rigida vita di corte, che cerca di evitare il più possibile. Due donne infelici, fondamentalmente sole, chiuse nelle loro ossessioni: Sissi e la ginnastica fatta tutti i giorni, con sfinenti galoppate a cavallo, per avere almeno il controllo del proprio corpo, visto che le è precluso quello della propria stessa vita; Fanny e la sua feroce, smodata ambizione di ascesa sociale che la porti il più in alto possibile e la allontani sempre più da un’infanzia misera e bistrattata. Ossessioni che sono il motore della loro stessa vita. Ossessioni che le rendono sistematicamente frustrate, però, impossibilitate a raggiungere i loro sogni e le loro aspirazioni, strette in un nodo nevrotico mai sciolto, ed in più colpite entrambe dal dolore più terribile che possa investire delle madri; la morte di un figlio. Ma costrette, sia l’una, sia l’altra, a ingoiare in fretta quel dolore straziante, a smaltirlo al più presto per riprendere il loro “posto”, il posto e il ruolo che hanno nella loro esistenza.
All’interno di questo destino chiuso e predeterminato, cercano, ciascuna a suo modo, di ritagliarsi uno spazio di autenticità (la felicità è del tutto bandita) che si esprime però solo in queste solipsistiche ossessioni. Come se, al di là di queste, non ci fosse altro modo di realizzare se stesse, di avviare un vero processo di individuazione e di realizzazione. Tra le due, inoltre, si instaura una relazione tra serva-padrona che vede l’imperatrice portare vessazioni ed offese gratuite alla sua parrucchiera personale, che pure ha inventato per lei l’"acconciatura a corona" che diventerà l’emblema distintivo dei suoi ritratti più celebri. E la smielata e melensa Sissi del film del 1955 interpretato da Romy Schneider, subisce, grazie a questo spettacolo, un colpo decisivo. Cade la maschera ed Elisabeth appare per quello che realmente è: un’anoressica (si nutre solo di latte di capra), depressa ed infelice donna che, pur essendo nominalmente un’imperatrice non può decidere quasi nulla della sua stessa vita. Che paradosso! Ma anche che potente demistificazione!
Colpisce, in questa pièce, come l’infelicità non sia condivisa e, comunque, non porti necessariamente alla condivisione. Colpisce, accanto all’assenza di relazione (se non quella malsana tra serva e padrona con dispetti reciproci) l’assenza di amicizia e di solidarietà. Perché il testo coraggiosissimo e finissimo di Franca De Angelis indaga gli aspetti oscuri e meno accattivanti dell’universo femminile. Fanny e Sissi, non interessate o incapaci di mettersi empaticamente in contatto l’una con l’altra, sono al contrario capacissime di cattiverie consapevoli, di invidie, di gelosie, di uso spregiudicato di giovanissime e belle amanti. Indaga e rintraccia nelle relazioni tra donne tutto un “gioco” di ombre, di rispecchiamenti più o meno distorti e di specchi vuoti.
Nella granitica volontà di Fanny di uscire da una condizione di degrado per lei insopportabile, tuttavia, c’è qualcosa di commovente e di umanamente comprensibile. Anche perché nonostante le violenze fisiche e psicologiche subite, questa bambina e poi donna non si piange mai addosso, non si lamenta mai, non si auto-commisera mai. E sottolineo, mai. C’è della grandezza in questa sua reazione volitiva di pensare ed agire senza indulgere in alcun lamento (ecco, il lamento, un altro elemento negativo del femminile che la parrucchiera, però, non ha).
All’autrice interessa indagare così più l’aspetto psicologico che l’aspetto sociale di un maschile ottocentesco che imponeva al femminile di essere solo maternità e bellissima apparenza; togliendo alle donne non solo la loro individualità, ma proprio lo statuto di individualità e quindi di conseguente realizzazione di sé come persona.
Se questa sua ricerca drammaturgica di affondo e scavo nel negativo del femminile sostanziava anche il suo precedente lavoro, Il gioco, dove, a poco a poco, veniva svelato, e con non pochi colpi di scena, l’animo lacerato della dottoressa Zeta, una dark lady contemporanea di coscientissima potenza, qui rivela le profonde insoddisfazioni di una condizione femminile di due secoli fa, vista da due punti di vista polari, l’imperatrice persa nel raggiungimento di un suo ideale di bellezza e di perfezione, e la parrucchiera divorata da un’ambizione schiacciatutto e schiacciatutti, con una carica intellettuale che ha la forza e l’urgenza di irrompere anche nel nostro presente e di interpellarci così: siamo proprio sicure, noi donne del terzo millennio, di essere così lontane e diverse da Fanny e da Sissi? Siamo poi così sicure di esserci concretamente ed interiormente liberate? E ci chiediamo mai quanta libertà sia effettivamente a nostra disposizione; oppure ci domandiamo di quanti riti vuoti e stanchi, che però si trascinano ancora oggi, si è ancora prigioniere, più o meno consapevoli? Queste e tante altre domande scomode, tante altre riflessioni urticanti lascia vagare per la mente questo stimolantissimo spettacolo.
La regia di Anna Cianca mi è parsa quasi una prova zen tanto è nuda ed essenziale. Le sono bastati due cubi bianchi, che, opportunamente spostati, assolvono a più funzioni (letto, sedia, sedile di un treno ecc.), l’uso di luci mirate ed isolanti, e l’idea geniale di un paravento su cui proiettare ombre suggestive che aiutano la sintesi e la dinamicità della narrazione per allestire una messinscena raffinata e potentemente evocativa. Per non parlare dell’oculata e splendida scelta musicale che ha in Nänie, opera 82 di Brahms una scelta superbamente vincente.
Tiziana Sensi presta la sua figura slanciata ed asciutta alle due diversissime protagoniste, Fanny e Sissi. Le basta erigere la schiena e trovare toni bassissimi per essere l’imperatrice Sissi oppure inclinare appena le spalle, ed avere un tono più caldo e un ritmo più affannato (indimenticabile quel suo «pensa, pensa, pensa») per essere la parrucchiera Fanny; gesti minimi per trascorrere da un personaggio all’altro senza forzature, da attrice di razza che non ha bisogno di caricare o rimarcare. Avvalendosi di un’eleganza estrema e naturale noi spettatori la seguiamo rapiti in questa sua ascesa dalla misera e sporca casa in cui è nata alla corte imperiale a cui è ammessa conquistandosi perfino il titolo di baronessa. Siamo con lei su un treno sussultante o in rincorse impossibili e in quel «sììììì» con giravolte di pazza gioiosità infantile. Nella parte iniziale andrebbe forse evidenziato l’aspetto comico, quando c’è, con una maggiore calibratura dei tempi comici; peccato veniale che non inficia il valore della sua interpretazione.
Nella battuta finale «sono una peccatrice» trova un tono diversissimo, unico, mai usato prima. Un tono profondamente toccante, incrinato di pianto vero, prima di andare dietro il paravento, muovendosi al rallentatore e finendo con una stilizzazione sagomata, regale e superba, della tanto ammirata imperatrice. Sublime! E nel dialogo finale (o monologo a due voci), che è il momento-clou dello spettacolo, quando i temi del desiderio di immortalità dell’una contro il desiderio di libertà dell’altra vengono finalmente espressi, si provano autentici brividi per la profondità limpida e lucida della scrittura, per la recitazione altissima e per una regia di luminosa sapienza.
Menzione speciale per lo straordinario costume nero dalle molti funzioni indossato dalla protagonista; ingegnosissima idea del costumista Marco Berrettoni Carrara che per il disegno si è richiamato al ritratto postumo dell’imperatrice fatto dal pittore Leopold Horowitz.
E chiudo, come lo spettacolo, con la scelta calzante dell’ammaliante musica di Brahms, quando il coro a quattro voci canta i versi di Schiller, che racchiudono, poeticamente e concettualmente, l’intera tematica della messinscena:
«Anche la Bellezza è destinata a morire». […]
«Guarda, piangono gli dèi, e piangono tutte le dee,
perché la Bellezza svanisce, e la perfezione muore.
Ma anche essere un canto sulla bocca dell’amata, è cosa splendida,
perché solo l’uomo comune scende agli inferi nel silenzio».
Maria Antonietta Nardone© Tutti i diritti riservati