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La gabbia della colpa

  • Immagine del redattore: Maria Antonietta Nardone
    Maria Antonietta Nardone
  • 9 set
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 12 set

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(Foto della locandina presa dal web)


ELISA

 di Leonardo Di Costanzo

 con Barbara Ronchi, Roschdy Zem, Diego Ribon, Hippolyt Girardot, Giorgio Montanini, Valeria Golino

 

Una donna con un giaccone bordeaux cammina tra i sentieri innevati di una montagna. Il passo è deciso, l’andatura sembra determinata. Raggi di un sole velato filtrano tra i rami degli alberi. Una rete di recinzione ed una telecamera ci mostrano che non siamo in un luogo ameno. Bensì in un luogo di reclusione.

   È questo l’incipit dell’ultimo film di Leonardo Di Costanzo, Elisa, che ha partecipato alla 82° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un film inconsueto e, allo stesso tempo, molto interessante.

   A Moncaldo, in Svizzera, c’è un luogo di reclusione che non è un carcere di stile ottocentesco, come ce ne sono ancora tanti in Italia, bensì un luogo con casette di legno nel bosco per le detenute, bar o altri laboratori in cui lavorare, sale di conferenza in cui ascoltare, ad esempio, le lezioni di un criminologo, il professor Alaoui. Ed è proprio grazie agli incontri con il professor Alaoui che Elisa Zanetti, detenuta da dieci anni, può cercare di ricordare “il fatto” che l’ha portata lì, e che un’amnesia le impedisce di ricordare. Razionalmente sa di che cosa è stata incriminata, ma non ha ricordi personali del suo crimine. Che non è un crimine di poco conto e che lo spettatore scopre a mano a mano che i colloqui tra il criminologo ed Elisa procedono e i frammenti del passato riemergono attraverso alcuni flashback.

   È un film spigoloso e pieno di silenzi, dove vediamo cieli freddi ed interni oscuri, traiettorie di sentieri fatti a piedi, traiettorie con curve e tornanti percorse da autoveicoli, abeti maestosi e montagne innevate.

   Senza svelare troppo, la memoria di Elisa a poco a poco affiora, non senza perturbamenti, e il delitto da lei commesso è di quelli che fanno tremare mente e vene: ha ucciso la sorella maggiore ed ha tentato di uccidere anche la madre. Come dice Radice, una guardia carceraria, a vederla, Elisa, non si riesce ad immaginare che abbia potuto fare quanto ha fatto. «Ma è così. L’ho fatto. Sono io che l’ho fatto» risponde quasi con stizza Elisa.

   Il cuore del film mi sembra essere in queste due arterie principali: la volontà di comprendere del professor Alaoui, così come sosteneva Hannah Arendt:«Cercare di capire, non è giustificare»; cercare di capire come un individuo arrivi a commettere un’azione criminale, quale percorso dell’anima ha fatto per arrendersi al male. E poi la constatazione che quello stesso individuo non può essere identificato solo ed esclusivamente con quel male compiuto, per decenni o per sempre. Perché si è stati (anche) altro. Si è altro. Si potrà essere altro – dopo aver raggiunto, naturalmente, una piena consapevolezza del male compiuto. E qui si inserisce anche l’incisività del cambiamento. È questo un aspetto importantissimo, decisivo direi, per una società che voglia dirsi civile ed evoluta: una persona non è solo il crimine che ha compiuto. Ed è un aspetto che investe la giurisprudenza, il senso stesso della pena e i luoghi dove dovrà essere scontata questa pena. Ossia come sono pensati e quanto possono accompagnare all’accettazione della propria responsabilità, ma anche al cambiamento per una futura vita fuori dal carcere.

   Nel film è rappresentata anche la voce di chi rifiuta qualsiasi ricerca, qualsiasi tentativo di comprendere l’autore di un delitto perché colpito/a nei suoi affetti più cari (il personaggio della madre interpretato da una dolente Valeria Golino).

   L’ascolto, poi, è altrettanto decisivo. L’ascolto di chi non giudica (perché c’è già stato un processo ed una sentenza), ma semplicemente, accoglie la storia, unica, di quell’individuo che ha compiuto un atto malvagio. Quindi, anche il dialogo tra un criminologo ed un’omicida può tramutarsi in una talking cure, un affondo nei gorghi più oscuri dell’anima, dove la rabbia, la paura, il fallimento e l’aggressività sono riconosciuti per quello che sono ed accettati come tratti o sentimenti “sgradevoli” della propria personalità, invece di lasciarli erompere senza controllo, senza mediazioni passando così all’atto violento ed irrimediabilmente distruttivo.

   È bello che una riflessione di tale portata sia stimolata da un film così asciutto e pieno di rigore, sia nella sceneggiatura (firmata da Bruno Oliviero, Valia Santella e lo stesso Leonardo Di Costanzo), sia nella regia, sia nelle interpretazioni.

   La musica e i suoni, che già mi avevano colpito nel precedente film di Di Costanzo, Ariaferma (2021), anch’esso ambientato in un carcere (lo sferragliare di porte e cancelli), mi colpiscono molto anche in questo (il suono dei passi al chiuso oppure quelli tra la neve e le foglie di un sentiero di montagna). E l’Andante del Nisi Dominus, il “Cum dederit”, cantato da Jochen Kowalski, è una scelta semplicemente sublime.

   La fotografia senza luce di Luca Bigazzi serve benissimo l’indubbia cupezza della vicenda narrata.

   La regia di Leonardo Di Costanzo, che all’ariosità di abbondanti nevicate sugli abeti contrappone inquadrature strette e primi piani sui volti del criminologo e dell’omicida, non fa alcuna concessione alla spettacolarizzazione nelle scene dell’istituto di pena modello né nelle scene in cui affiorano i ricordi più dolorosi. Mi è piaciuta molto, inoltre, la solidarietà tra detenute priva di qualsiasi mielosa smanceria.

    Le interpretazioni sono tutte precise ed efficacissime. Da Roschdy Zem, che incarna l’umanissimo criminologo, a Diego Ribon, che è il dolente e tenero padre di Elisa, dal paterno direttore del carcere interpretato da Hippolyt Girradot all’attenta guardia carceraria impersonata da Giorgio Montanini.

   Ma debbo riconoscere che il film è il volto, gli occhi, l’andatura, il respiro, la postura ed i gesti di un’eccezionale Barbara Ronchi, che con un’interpretazione asciuttissima trasmette tutti gli stati d’animo di Elisa Zanetti, dalla rabbia alla paura, dalla ritrosia al turbamento, dalla violenza alla debolezza. Mi ha fatto proprio sentire, psicologicamente e fisicamente, sia l’abisso impenetrabile in cui è scivolata sia il lavorìo della colpa che le avvolge  e corrode l’animo.

   Trasmette soprattutto la gabbia invisibile della colpa che la consuma e che le graverà a vita sulla coscienza e sull’anima anche quando la gabbia visibile del carcere – sia pure di quello modello di Moncaldo – un giorno si aprirà e lei potrà percorrere di nuovo le strade del mondo.

   Un film coraggioso che interroga con onestà intellettuale tutti noi e ci spinge a pensare in che tipo di società vogliamo vivere.

   Chiudo con la considerazione del professor Alaoui, che è poi quanto sostanzia l’intera pellicola:«Il mistero di chi provoca dolore è ancora più profondo di quello di chi lo subisce».

 

 

 

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

 

 

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