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  • Maria Antonietta Nardone

Dario Fo, l'indomabile giullare


(Foto presa dal web)


Cala il sipario sulla vita terrena di Dario Fo. Ma il suo sterminato patrimonio teatrale resta qui, su questa terra, a vivere e a stimolare chiunque voglia attingervi. Immenso uomo di teatro – attore, regista, drammaturgo, scenografo, illustratore, pittore – ci ha regalato un’opera sconfinata, dove tra satira e grottesco, risa e lazzi, ha smascherato ogni forma di potere (ed ogni sua torva violenza) dando voce e dignità agli umili, agli umiliati ed agli offesi. Spirito libertario ed anarchico, è stato anche un autentico antropologo dei caratteri italiani tipici, da Commedia dell’Arte, che sembrano antichi o sepolti, ma riemergono ogni volta più forti e fulgidi di prima.

Grande ingegno, di potente e corrosiva inventività linguistica – usando il gramelot, lingua inventata pescando nei suoni e nelle cadenze dei dialetti tra Lombardia e Veneto, fatta di fonemi, appunto, ritmo e nonsense, ma comprensibilissima da tutti (e come può non essere considerata letteratura una tale creatività drammaturgica e linguistica?) – per temi, toni e profondità è affine a Ruzante, a Molière, a Goldoni. È oggi l’autore italiano contemporaneo più rappresentato al mondo. Mistero buffo, Morte accidentale di un anarchico, Il Fanfani rapito, Isabella, le tre caravelle e un cacciaballe ecc. solo per citare alcuni famosissimi titoli.

Impegnato con coraggio e generosità nella vita sociale e politica del paese, subì arresti, censure, violenze, minacce e lunghe “quarantene” dai teatri pubblici e dalla televisione di Stato (se ne andò, non accettando la censura, dalla Canzonissima del 1962, per aver parlato di morti sul lavoro e di mafia, e fu così bandito per 15 anni). Dai teatri con le poltrone di velluto rosso si spostò allora nelle fabbriche, nelle tende, nei capannoni, nelle scuole, nelle piazze e nelle carceri.

Uomini della politica e delle istituzioni lo hanno insultato, deriso, osteggiato per decenni. Qualcuno si ricorda, oggi, i nomi dei politici, degli intellettuali o dei giornalisti che attaccarono ed offesero Dostoevskij per i suoi romanzi e le sue idee? No. Bè, lo stesso accadrà con quelli che attaccarono ed offesero (e tuttora offendono) Fo. Perché ho fatto il riferimento allo scrittore russo? Perché in Mistero buffo l’incontro tra papa Bonifacio VIII e Gesù mi ricorda La leggenda del Grande Inquisitore, inserita nel romanzo I fratelli Karamazov – nella sostanza, naturalmente, non nei toni. C’è più spiritualità, umanissima spiritualità nella sua irriverenza religiosa che in tanti supini bigotti, rigidi dottrinari o reazionari camuffati da intransigentissimi fedeli. Per non parlare poi del suo struggente Lu santu jullare Francesco sulla vita di San Francesco d’Assisi, quella raccontata da Giovanni da Celano in Vita prima, prima censurata e quindi condannata alla distruzione dal clero dell’epoca.

La vergogna è stata che ad un uomo di teatro di tale statura, riconosciuta universalmente, non sia mai stato dato un teatro da dirigere, uno spazio tutto suo da animare con quell’impareggiabile e folgorante energia. Una vera vergogna.

Quando, nel 1997, vinse il premio Nobel per la letteratura, in patria, non pochi gridarono allo scandalo. Ci fu qualcuno che disse perfino che l’assegnazione a Fo fu la prova della mancanza di rispetto e di conoscenza della letteratura italiana da parte dell’Accademia svedese. Fu la prova, invece, dell’ennesimo provincialismo e dell’insradicabile miseria intellettuale che affligge tanta parte del nostro paese.

Nel 1973, una banda di neo-fascisti, rapì, torturò e violentò a turno Franca Rame, la moglie attrice, coautrice, organizzatrice teatrale, attivista politica, per colpire lui, l’indomabile Dario Fo. Si racconta che alla diffusione di questa notizia, in una caserma delle forze dell’ordine, si brindò (sic!). Per quanto mi riguarda quasi non oso immaginare che cosa provarono lui e il figlio, all’epoca diciottenne. Franca Rame rispose anni dopo con la forza della parola e del teatro ad una violenza bieca e vigliacca che disonora chi l’ha ideata e perpetrata e non certo chi l’ha subita. Scrisse ed interpretò il monologo crudo e dirompente dello stupro, contenuto in Tutta casa letto e chiesa, che rivelò non solo la sua capacità di trasformare in arte la violenza massima fatta ad una donna, ma anche la sua superiorità umana, morale e spirituale. Un monologo tuttora da brivido.

La risposta di entrambi agli oltraggi subiti fu sempre una risposta eminentemente culturale. Elegantemente culturale, aggiungo.

E mi piace concludere queste mie poche righe, ancora incredule, rievocando la prima volta che vidi Dario Fo e Franca Rame a teatro. Siamo negli anni Ottanta. Ho poco più di vent’anni. È una notte più umida che fredda. Entro nel Teatro Tenda di piazza Mancini, a Roma. A sinistra vedo un banchetto con la scatola di “Soccorso Rosso”. Su un altro banchetto ci sono libri di poesia e di canzoni in vendita. Oltrepasso un tendone. Mi siedo su una sedia di plastica. Sono eccitata ed emozionata. Sto per assistere alla messinscena di Mistero buffo. Un uomo alto, con i capelli bianchi, i pantaloni di velluto marrone e un maglione dolcevita scuro entra sorridendo in scena. Ed è una lunghissima cascata di applausi che lui stesso interrompe per iniziare subito lo spettacolo senza inutili fronzoli. Un uomo solo, in scena, che diventa tanti uomini e donne e giovani e vecchi con la duttilità della voce, che si fa fina, profonda, roboante, cantante; con l’irresistibile mimica del corpo e della faccia; con la grazia leggera dei suoi movimenti e dei suoi gesti; con la forza di una lingua inventata pescando nel suono di mille dialetti; con la magia di un racconto che avvince, emoziona, fa ridere, fa piangere e fa riflettere. Ed è incanto.

Sono grata di aver potuto godere, per oltre trent’anni della mia vita, dell’incanto teatrale di questo indomabile ed infaticabile affabulatore.




Maria Antonietta Nardone© Tutti i diritti riservati







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