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  • Maria Antonietta Nardone

Una storia di cinema e di balene


LA BALENA DI PIAZZA SAVOIA – L’immaginario che avevamo in dote

di Leopoldo Santovincenzo

Edizioni Exòrma – Roma, 2017


Che bel libro ha scritto Leopoldo Santovincenzo! L’ho letto tutto d’un fiato divorando le sue 279 pagine una dietro l’altra! La balena di piazza Savoia è un romanzo di formazione avvincente ed originalissimo. Un vero e proprio bildungsroman, dall’impianto fortemente saggistico, in cui si rintraccia l’origine e il dispiegarsi di una passione: il cinema. A questa si affianca la lunga ricerca di una balena imbalsamata, Goliath, vista a Campobasso dal protagonista bambino. Fu vera visione o un sogno, un’illusione spacciata per realtà?

Attraverso il ritrovamento di agende su cui il novello critico annotava la lista dei film da vedere oppure, poco più tardi, i film visti e valutati con delle stelline, emerge e si delinea con nettezza una vocazione: quella dello spettatore tanto appassionato quanto ossessionato che rimarrà comunque un affamato mai sazio di film, nonostante le grandi abbuffate, pur essendo diventato uno storico del cinema finissimo.

E memorabile è la descrizione del suo primo incontro con il cinema a due anni:«Vortice luminoso in cui si rincorrevano polvere, colori, fumo di sigaretta. […] Invece avevo avuto il privilegio di essere messo in piedi, ritto su un bracciolo a dominare la sala come un re, sotto il mio sguardo un oceano di teste sudate. E girandosi indietro verso la platea, quel bambino poteva vedere lo stesso luccichìo balenare in centinaia di occhi, indizio dello strano incantesimo che teneva tutti lì, fermi a guardare verso un unico punto». Ed è proprio in queste prime esperienze di spettatore ancora imberbe, qualche anno più tardi, che la sala cinematografica verrà vissuta come il ventre oscuro di una balena da cui essere inghiottiti per poi essere sputati fuori con un animo completamente rinnovato. Molte e splendide sono le pagine che raccontano l’incanto e la trasformazione nell’animo pulsante ed ardente di questo adolescente vitale ed inquieto.

In una provincia che imbriglia ed addormenta, il giovane Leo vive e partecipa alla variegata e ricca offerta cinematografica, sia produttiva sia distributiva, che l’Italia ha avuto negli anni Sessanta e Settanta: spaghetti western e Fellini, wuxia film e Kubrick, Dario Argento e Franco e Ciccio, Petri e Godzilla, pirati e giustizieri della notte, Rocha e i musicarelli, Ferreri e Spielberg, Bruce Lee (cristallina l’analisi dei suoi film) e King Kong (toccante la sua descrizione) ecc. Un’offerta che alimentava l’immaginario collettivo, rendendolo straordinariamente florido ed eterogeneo. Un immaginario sapido, pieno di odori e di sapori, appunto; ma soprattutto un immaginario meravigliosamente anarchico.

In quegli anni, quindi, si viveva in un paese che oltre ad un’offerta cinematografica e letteraria ricchissima dava la possibilità di vedere una balena, una vera balena imbalsamata che, catturata in Norvegia nel 1954, fece un lungo tour tra Europa e Medio Oriente fermandosi anche in diverse città italiane, tra cui anche Roma e Campobasso. In realtà le balene erano tre, ma la sostanza del discorso di un fenomeno da baraccone ottocentesco, inteso come capacità di stupirsi o di attrazione morbosa, che ancora abitava nella realtà e nell’immaginazione del Novecento europeo, non cambia.

Intanto, con il passare degli anni, le sale cinematografiche cominciano a chiudere e a sparire con sistematicità allarmante. L’autore racconta con dolente e asciutta puntualità la morìa di tutte queste sale tra il capoluogo molisano e la capitale, dove si è nel frattempo trasferito a vivere e a studiare.

Finché non chiude anche l’Airone, la sala che nelle sue fattezze riproduce le fauci di un capodoglio. Chiudendo così anche metaforicamente e non solo materialmente una stagione di cinema intensissima e composita.

Da notare che le sale cinematografiche sono descritte fin nei minimi dettagli, sia negli arredamenti interni sia nei loro particolari architettonici esterni, con una cura talmente affettuosa che le fa assurgere a veri e propri personaggi di questo romanzo. Basta leggere le righe dedicate al Cinema Modernissimo per rendersene conto.

Questa è un’autobiografia non solo individuale (che descrive la vocazione primaria di uno spettatore onnivoro ed instancabile), bensì anche collettiva, anzi generazionale direi (l’autore è nato nel 1964), in cui non mancano le rievocazioni delle tensioni e dei conflitti politici del tempo, brevi ritratti di amici, conoscenti e parenti (memorabili la nonna Amelia e lo zio Renzo), oppure quelli, altrettanto brevi, ma incisivi, di Chet Baker e Pier Paolo Pasolini, entrambi scavati da una fonda disperazione. Né mancano acutissime osservazioni da storico tout court prima ancora che da storico del cinema; mi riferisco all’analisi del cambio della scena sociale di cui mi piace citare qui un brano folgorante:«Ad esempio viene da pensare a come sia cambiata la scena sociale al centro dei film italiani. Ho provato a fare una piccola ricerca. Tra il 1967 e il 1971 sono protagonisti contadini, operai, muratori, barbieri, fioraie, prostitute, bagnini, emigrati, pizzaioli, venditori ambulanti, pretini di campagna, ragionieri, sotto proletari. Quando lo sguardo si volge al passato ecco apparire alla ribalta partigiani, manovali anarchici, briganti, peones, pirati anticolonialisti. Sfido, tra le produzioni italiane degli ultimi anni, a trovare una simile galleria. In compenso troverete manager, architetti, bancari, avvocati, imprenditori, broker, ingegneri, medici – meglio se primari – scrittori o sceneggiatori in quantità, professori, studenti di buona famiglia, perfino critici d’arte. […] Insomma, per figurare in società, almeno in quella cinematografica italiana, il proletario deve essere giovane, carino, pulito, umile, rispettoso, parlare con un lieve accento dialettale, meglio se toscano che fa ridere, non avere troppi problemi economici, vestire con gusto, pazienza se non è firmato. Appena un gradino più giù e diventa immediatamente il coatto, rumoroso, volgare, griffato in stile periferia, ignorante, teledipendente, sguaiato, sempre con il cellulare in mano, che è poi il modo in cui i cineasti borghesi esprimono la loro paura del contagio marcando la differenza e amplificando l’orrore. In mezzo, incredibilmente, non c’è niente. Per vedere un operaio civile, incazzato, orgoglioso bisogna aspettare i collegamenti dalle fabbriche di alcuni programmi di informazione giornalistica che sembrano a volte, nella loro ansia di racconto della realtà, più cinematografici del cinema. Anche a costo di apparire anacronistici: e infatti sembra quasi che i collegamenti non siano spaziali ma temporali, con gli anni Settanta».

E non mancano nemmeno ipotesi psicoanalitiche ardite (ma nemmeno poi tanto) come questa:«Come se una parte del nostro inconscio fosse “appaltata” al dinosauro che è in noi e che riconosce se stesso a ogni sua immagine che incrociamo nella nostra infanzia».

È la rievocazione di un mondo ed anche il percorso formativo di una generazione e della sua gioiosa, gioiosissima ed inquieta capacità di immaginare. È la memoria che da ricordo personale si allarga a memoria di un’intera comunità. Ed è anche la perdita di questa memoria collettiva. Verso la fine del romanzo, difatti, così leggiamo:«Come abbiamo potuto smarrire la memoria di Goliath? Dimenticare la balena è stato il peccato originale del Molise, il suo modo per disinnescare l’ordigno, la sua autodifesa e la sua maledizione: quella di una provincia senza immaginazione». E come non vedere che questa dimenticanza riguardi invece il paese tutto, l’Italia, quell’Italia che nello scacchiere del mondo, oggi, altro non è che una provincia senza immaginazione e senza memoria?

Ma chi è avvinto da una passione non dimentica questa passione né la felicità ad essa dovuta. Ed è per questo che il protagonista ormai adulto conserva nella tasca della giacca il ritaglio di giornale ripiegato in cui è stampato il programma di Massenzio 1978 – prova provata dell’indimenticabile Estate Romana ideata da Renato Nicolini – come un amuleto segreto o, meglio ancora, come un talismano, capace di risvegliare una creatività spenta ed asfittica.

Bellissima la scena finale di questo romanzo di crescita e formazione con i due giovani amici che camminano sotto la neve, la neve che cade «implacabile e lieve» su tutto e su tutti; mi ha ricordato la scena finale del racconto I morti di Joyce con la neve che cade lieve su tutto «su tutti i vivi e i morti».

Santovincenzo ha avuto il talento e la forza mite di raccontare l’immaginario di un’epoca e di confrontarlo con l’immaginario dell’epoca attuale. E lo ha fatto con un tono mai nostalgico (il rischio maggiore); ma felice che quel passato riemerso sia stato e sia stato da lui intensamente esperito. E lo ha fatto con una sincerità piana, mai ostentata, che stupisce e disarma chi legge.

Infine, una piccola divergenza. Dissento dal paragone che viene fatto con il capitano Achab perché Santovincenzo non dà la caccia alla memoria della balena Goliath per ucciderla bensì per attestarne la sua esistenza e per ripercorrerne la capacità di suscitare meraviglia e desiderio di rinnovamento. Certo, anche la sua è un’ossessione, anch’egli domanda a tutti i suoi amici se si ricordano di una balena vista quando erano bambini, così come Achab chiede all’equipaggio di ogni baleniera che incontra in mare se hanno visto la Balena Bianca, ma gli scopi e i sentimenti dei due scrittori verso la balena sono del tutto opposti. Le sue domande agli amici, difatti, fungono da inaspettati passepartout che aprono su lontane e dimenticate stanze della memoria, donando loro aria nuova e nuova luce.

La sua vicenda, invece, mi ha richiamato alla mente La linea d’ombra di Conrad (che è il passaggio di un adolescente all’età adulta così come avviene all’autore stesso che da Campobasso si porta a Roma e, dopo diverse occupazioni e molte difficoltà, tanto esistenziali quanto economiche, conquista finalmente un lavoro a tempo indeterminato ed arriva a svelare dopo lunghe e laboriose ricerche il mistero della balena in formalina vista da bambino). E dove a morire invece che i marinai della propria nave sono le amate sale cinematografiche da lui frequentate che chiudono e scompaiono una dietro l’altra. Nel romanzo breve di Conrad, inoltre, la nave del giovane capitano è preda di una terribile bonaccia che la tiene immobile per oltre due settimane. E come non vedere in questa immobilità la condizione di tanto, tantissimo cinema contemporaneo?

Ma il vento infine arriva e riporta la nave dei moribondi a Singapore. Portati i marinai malati in ospedale, il giovane capitano riprende il mare con un equipaggio tutto nuovo.

Non si può che sperare che anche la nave-cinema esca finalmente da questa immobilità nefasta e mortifera e che parta di nuovo in mare aperto, come il giovane capitano de La linea d’ombra. Noi spettatori incalliti, che abbiamo conservato la capacità di meravigliarci sia al cinema sia nel periglioso viaggio dell’esistenza, lo speriamo con tutto il cuore. E siamo grati a Leopoldo Santovincenzo di averci raccontato con una grazia invidiabile un come eravamo pieno di passione e di immaginazione oltre che di generosità e di speranza.

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati








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