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  • Maria Antonietta Nardone

Il portatore di morte


(Foto della locandina presa dal web)


OPPENHEIMER

di Christopher Nolan

con Cillian Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Robert Downey Jr., Matt Damon, Rami Malek


Quando ho saputo che Christopher Nolan avrebbe fatto un film su Oppenheimer, il fisico statunitense Julius Robert Oppenheimer, mi sono detta: bene, ci sarà la fisica, la storia della costruzione della bomba atomica, il rapporto tra scienza e potere e viceversa; magari, anche le interrogazioni alla propria coscienza, dubbi etici ineludibili, la comprensione del senso del limite ecc.

E chissà come il regista britannico filmerà temi (e personaggi) che hanno attraversato un segmento fondamentale dell’ultimo secolo e che tuttora investono le nostre menti e le nostre coscienze.

Ora che il film è uscito anche nelle sale italiane, sono andata a vederlo, piena di aspettative. Un giovane Oppenheimer, studente ricercatore a Cambridge poi a Leida, vede quello che altri non vedono: la morte di una stella, la luce ingoiata dall’oscurità. Vede anche un quadro di Picasso. Un volto scomposto. Mi sono detta; bene, il regista si avvarrà di una narrazione non lineare, ma per associazione, per contrasto, saltando da un tempo all’altro, da uno spazio all’altro, partendo da quanto accade nella mente di questo scienziato e, alla fine, del suo tanto infido quanto invidioso persecutore, il Presidente della Commissione per l’energia atomica per gli Stati Uniti d’America, il politico repubblicano Lewis Strauss.

Nella prima ora, tuttavia, sembra di assistere ad immagini di un documentario sulla natura inframezzate da lunghi dialoghi in cui i partecipanti sono tutti straordinariamente consapevoli del momento storico che stanno vivendo e da flashback oltremodo didascalici. Eppure, lo sguardo allucinato di Oppenheimer – interpretato da un estenuato Cillian Murphy – le cui orbite sembrano incavarsi via via che la storia affianca i suoi tasselli, e il corpo scarnirsi fino a diventare pelle e ossa (come si suol dire), insieme ad un’idea narrativa molto intrigante, mi hanno tenuta incollata alla poltrona. L’idea che il vero nemico, per gli Stati Uniti d’America, non fosse la Germania nazista, bensì l’Unione Sovietica, o, a dir meglio, il comunismo, i comunisti, lì, fuori nel vasto mondo, o, addirittura, orribile dictu, in patria. E il pre-maccartismo e il maccartismo sono lì a provarlo. E come questa paranoia da incubo, o questo incubo paranoico, che ha rovinato l’esistenza a tanti artisti, scrittori, cittadini, abbia colpito anche il cosiddetto “padre” della bomba atomica. Mi è sembrato che sarebbe stato interessante indagare anche questo aspetto. Ma non immaginavo che l’ultima ora del film fosse dedicata ad una certosina disamina giuridica, certo persecutoria, ma poco interessante prima ancora che accattivante – incentrata peraltro sulla riconferma o meno di un nulla osta per la sicurezza. Comprendo come ciò sia servito a mostrare, sopra ogni cosa, il desiderio di essere punito di un Oppenheimer mangiato e quasi sfinito dai sensi di colpa, ma la durata e la sostanza di queste disamine sono pretestuose e sfinenti.

Dopo tre ore di film, in cui viene ripercorsa l’esistenza di Oppenheimer, i suoi studi, la sua formazione anche in Inghilterra ed in Olanda, il progetto Manhattan, dove nel villaggio completamente tirato su dal nulla in terra Apache, a Los Alamos, in New Mexico – terra che poi viene restituita ai nativi americani con tutta la sua “bella” radioattività in eredità – costruisce e testa la prima bomba atomica (Trinity test), le sue perplessità, i suoi dubbi, che lo porteranno al rifiuto di progettare la bomba all’idrogeno, e poi la persecuzione subita da una Commissione segretamente manovrata da Strauss, ebbene, dopo tre ore di film, questo personaggio, il protagonista, non mi è arrivato appieno. Non mi ha toccato. Il suo tormento non mi ha emozionato. So bene che Nolan è un autore cerebrale che si affida ad una maestria tecnica indiscussa – soprattutto nelle scene d’azione. Ma la brillantezza estetica, l’uso sensoriale dei suoni e il ricorso al “bruciato” nella fotografia, da soli, non vanno in profondità. Tutto sembra restare in superficie. Non c’è scavo, non c’è motivazione, non c’è psicologia. Nolan non ha la profondità né il genuino afflato mistico di Tarkovskij né la capacità di descrivere l’inquietudine esistenziale o l’origine della cattiveria e del cinismo degli umani che ha avuto Kubrick. E nemmeno possiede il discorso interiore costante come in La sottile linea rossa di Malick. E questo è davvero un gran peccato! Anche Haneke è un autore eminentemente cerebrale; però, nei suoi film, l’impatto emotivo e la forza drammaturgica del testo arrivano eccome allo spettatore!

Se da un lato ho trovato grandiosa la parte dedicata a Los Alamos, e chiarissimi i momenti in cui Oppenheimer è esautorato di qualsiasi potere sull’uso della sua scoperta dai comandi militari, prima, dai politici, poi; non per niente è Truman a rivendicare l’uso e lo sganciamento della bomba su Hiroshima e Nagasaki sostenendo testualmente:«Sono roba mia»; quello stesso, grossolano Truman che dice al suo segretario di non portargli più davanti quel “piagnone” (ossia Oppenheimer), dall’altro lato non si può ridurre Einstein – no, dico Einstein! – all’umarell che guarda il laghetto di Princeton o di Berkeley invece che dei lavori stradali. O Il matematico moravo, Kurt Gödel, un logico che ebbe un’influenza enorme anche nel pensiero e nella filosofia del Ventesimo secolo, essere tratteggiato come uno squilibrato che si perde nei boschi ossessionato com'è dalla paura di essere avvelenato dai nazisti.

Nonostante le ottime interpretazioni di Cillian Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Robert Downey Jr. (senza escludere Kenneth Branagh, Gary Oldman Matt Damon, Mattew Modine, Casey Affleck, Rami Malek, Gregory Jbara, Jason Clarke ecc.), non siamo davanti a personaggi, a personaggi veri e propri, con una propria psicologia, con pensieri e passioni, ma a figuranti esclusivamente funzionali all’immaginazione frammentaria di Oppenheimer o a quella meschinella di Strauss.

Se in Dunkirk, il dolore individuale e la mattanza collettiva arrivavano anche grazie alla sensorialità dell’affogamento, qui, in questo lungometraggio, la supremazia della tecnica cinematografica su qualsiasi altro elemento narrativo e/o drammatico, nonché un infantile compiacimento estetico del regista, non rendono un buon servizio; un buon servizio artistico, intendo.

E poi, ci sono tante omissioni e reticenze, di cui non capisco la ragione. Ad esempio, perché non parlare nel dettaglio del bombardamento di Tokyo? I bombardamenti di Tokyo si svolsero dal 1942 al marzo del 1945, e rasero al suolo oltre il 90% degli edifici pubblici (scuole, ospedali, case, industrie ecc.) per un totale, approssimativo per difetto, di 200.000 mila morti civili. E questo, prima di sganciare la prima bomba atomica.

Il Trinity test viene effettuato il 16 luglio 1945. La prima bomba atomica viene sganciata su Hiroshima, il 6 agosto 1945; la seconda, a Nagasaki, il 9 agosto 1945. Entrambe uccisero, complessivamente ed immediatamente, oltre 200.000/220.00 civili.

Per la cronaca, Hitler si era suicidato nel suo bunker il 30 aprile del 1945; la Germania si era arresa l’8 maggio 1945.

Il 20 giugno 1945 – le date sono importanti perché rivelatorie – il Segretario di Stato americano firmò l’ordine che lo scienziato tedesco Wernher von Braun, membro delle SS, e costruttore di missili V-2 per il regime nazista, grazie al lavoro schiavistico di migliaia di prigionieri di guerra provenienti dal campo di concentramento di Mittelbau-Dora, costretti a lavorare fino alla morte, sarebbe stato trasferito negli Stati Uniti; cosa che avvenne nel settembre del 1945. E con lui 1.600 scienziati e tecnici tedeschi, la maggior parte dei quali nazisti macchiatisi di gravi crimini, furono portati negli Stati Uniti a lavorare per l’industria militare americana, in quella che è nota come “Operazione Paperclip”.

Faccio presente, per chi non lo sapesse, che la figura di Wernher von Braun ha ispirato Kubrick per il suo Il dottor Stranamore (1964), dove un esilarante Peter Sellers, ogni tanto, chiamava il presidente degli Stati Uniti con un tanto significativo quanto incontenibile «Mein Führer». E, comunque, sia Kubrick sia Sellers, per anni, furono i soli a ribadire l’appartenenza di von Braun alle SS – che insomma non è proprio come aver fatto parte dei boy scout, aggiungo io. E, in epoca di negazionismo spinto, ribadire tale appartenenza, non è atto da poco. Naturalmente anche von Braun fu un portatore di morte. Di più, costui provocò più morti tra gli operai-schiavi nella costruzione dei missili V-2 (20.000 circa) che nella popolazione inglese su cui furono lanciati quegli stessi missili (5.000 circa).

Di tutto questo, di tutta questa “Operazione Paperclip”, non c’è alcun cenno, sia pur fuggevolissimo, nel film di Nolan.

Anni fa, vidi a teatro Copenaghen, una magnifica pièce di Michael Frayn, che immaginava un incontro tra Niels Bohr, il fisico danese, e Werner Heinsenberg, il fisico tedesco, suo allievo negli anni Venti, che in seguito aderì al nazismo. Per quanto mi riguarda, ho capito più da questa pièce che non da questo film, Oppenheimer. Non solo ho afferrato meglio la teoria della fissione nucleare e dell’energia che sprigiona, dei fotoni e degli isotopi – io, che non sono certo una fisica! – ma ho potuto vedere indagate tutte le implicazioni etiche, le domande, i dubbi, i tormenti, i pensieri, ma anche i dolori, i lutti, i sentimenti che hanno abitato sia Bohr sia Heisenberg. Per la cronaca, squisitamente teatrale, Bohr era impersonato da un maestoso Umberto Orsini; Heisenberg era incarnato da un irruente, irresistibile Massimo Popolizio e Margrete, la moglie di Bohr, era interpretata da una saggia ed ironicissima Giuliana Lojodice, il tutto per la regia di Mauro Avogadro.

Tuttavia, quando un film suscita riflessioni non banali sulla capacità dell’uomo di distruggere se stesso e l’intero pianeta in cui vive, e sulla possibilità o impossibilità di scongiurare questo terribile autodafé, così com’è il caso di Oppenheimer, si ringrazia l’autore e tutta la sua squadra artistica, perché, al di là di alcune rimostranze critiche, il film porta pensiero, approfondimento, discussione, confronto ecc. Insomma, porta vita e non morte.

Nolan, infine, decide di non mostrare alcun effetto della bomba atomica in Giappone. Nessuno. Preferisce che l’immagine di quel fungo di fuoco attraversi la mente agitata di Oppenheimer piuttosto che far vedere la realtà, la dura, pietrosa, incontrovertibile realtà di quell’esplosione sui corpi vivi della popolazione giapponese.

La scena, dopo aver sganciato la bomba, della difficoltà di Oppenheimer a parlare (pensa una cosa, ma dice quello che la gente tripudiante vuole che si dica, la gente che batte i piedi per terra e il suono di questi piedi che battono trionfanti dà brividi di puro sconcerto), bè, durante questa derealizzazione psichica di Oppenheimer, io, nella mia mente, a compensazione della suddetta invisibilità, ho visto invece la pelle degli uomini, delle donne e dei bambini staccarsi da se stessa come una carta da parati da un muro, mostrando nervi ed organi e muscoli e tendini vivi; ho visto le smorfie di dolore indicibile sui volti stupefatti dei feriti; ho sentito nella mia testa le loro urla penetranti – molto più penetranti della colonna sonora spesso altissima e ridondante che occupa gran parte del film.

E, per chiunque sia stato al Museo della pace di Hiroshima, ci sono immagini, foto, video e reperti che sono e restano indimenticabili del prima e del dopo il bombardamento nucleare sulla città; uno su tutti: l’ombra sullo scalino di chi è stato letteralmente “evaporato”, combusto fino a svanire all’istante dal calore sprigionato dall’esplosione. Nel 1996 si stabilì che l’ombra appartenesse ad una signora di 42 anni, Mitsuno Ochi, in attesa dell’apertura della Simutomo Bank Company. E, nel 2001, su quegli scalini, sono state ritrovate tracce di pelle, capelli e vestiti di questa persona.

È questo «l’horreur, l’horreur» di conradiana e coppoliana memoria che si preferisce non vedere? È questo indubitabile crimine contro l’umanità che “i vincitori” Stati Uniti d’America non vogliono riconoscere di aver compiuto?





Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati



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